La Porta dell'Orto e del Giardino

Mariarosa Dalla Costa

Partial translation in English here. This is the intervention at the seminar at Rialto occupato in Rome 1-2 giugno 2002 for the launch of the book Futuro anteriore, Guido Borio, Francesca Pozzi, Gigi Roggero (eds) (DeriveApprodi, Roma, 2002).

Dicono che due tipici linguaggi femminili siano l’uno il silenzio, l’altro le emozioni. Non userò il primo poiché la fabbrica della militanza non è ancora attrezzata per decifrarlo. Ma dovrete accettare che usi un po’ il secondo. Detto questo, ringrazio gli autori di Futuro Anteriore che hanno affrontato con successo la grande fatica di far riaprire memoria e confronto a molti esponenti dell’operaismo, e tra questi anche a me. Il mio contributo non è incluso in questo testo, nonostante mi fosse stato chiesto, non per disinteresse da parte mia ma perché ero in quel momento troppo impegnata. Stavo definendo la strategia di quella che, dopo il parto e l’aborto, considero la terza grande battaglia tra corpo femminile e corpo medico: l’abuso dell’isterectomia. Ne parlerò in breve qui di seguito, anteponendo tale questione alle altre perché è quella che più direttamente ha incrociato questo testo impedendomi, per la concentrazione che mi richiedeva, di dare tempestiva risposta. Ma, prima di trattarla, devo dire un po’ del mio percorso. Tra l’altro ho finito solo l’altro giorno di leggere il libro che mi era stato presentato come una ricerca sulla soggettività. Evidentemente durante il suo viaggio ha acquisito altre tematiche di grande spessore rispetto alle quali non ho avuto il tempo di riflettere come avrei voluto e mi spiace quindi se il mio contributo sarà piuttosto fuori fuoco rispetto a nodi che si presentavano altrettanto cruciali per noi del femminismo di derivazione operaista.

Comunque sono molto contenta di partecipare a questo dibattito. Come mai sono qui dopo 30 anni? La risposta è semplice. Perché questa è casa mia. Qui sono nata, qui è avvenuta la mia prima formazione politica ma soprattutto questa è l’esperienza che avevo cercato e che aveva dato risposta alla mia esigenza di capire e di fare. Non si possono cancellare le origini né mai ho desiderato di farlo. Questo è il luogo della mia mente. Qui c’è la gente che parla la mia lingua anche se io l’ ho mutata un po’ per poter parlare anche ad altre genti. Dopo non ci sono stati altri luoghi. Dopo c’è stata solo una lunga strada dove ho messo a punto un po’ di questioni che cercherò di sottoporre all’attenzione e dove ho fatto un po’ di battaglie. E al di là dei successi e degli insuccessi di quell’esperienza (per quanto mi riguarda ho partecipato a Potere Operaio Veneto) questo dà la misura della sua potenza fondativa nel percorso di vita, non solo mia a quanto pare, visto che siamo qui numerosi. Per cui a mio avviso andrebbe indagato meglio anche quest’aspetto, il perché del profondo senso di appartenenza che in molti quell’operaismo ha determinato. Ho l’impressione infatti che abbiamo più strumentazione in mano di quanto si possa cogliere guardando solo all’adeguatezza o meno del discorso di allora. Anzitutto metodo, determinazione e passione nel voler agire per trasformare l’esistente. Questi sono solo tre degli elementi fondanti di quell’esperienza ma li ritrovo tutti nell’attraversamento degli altri territori che ho compiuto nei periodi seguenti. Dal 1967 al 1971 ho militato in Potere Operaio, poi nel Movimento femminista. L’area di tale movimento che ho contribuito a promuovere ed organizzare, Lotta Femminista o area del salario al lavoro domestico, quindi, è certamente figlia anche di Potere Operaio.

Mescolando un po’ di memoria e di discorso attuale vorrei evidenziare tre questioni che tutte concernono la sfera della riproduzione:

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l’abuso dell’isterectomia in quanto devastazione dell’orto e del giardino della riproduzione interni al corpo femminile. La devastazione dei luoghi della generazione della vita e del piacere;

il lavoro di riproduzione come lavoro di produzione e cura della vita, questione rimasta inevasa;

l’espropriazione della terra e distruzione dei suoi poteri riproduttivi in quanto devastazione dell’orto e del giardino della riproduzione esterni ai corpi poiché la terra non è solo fonte di nutrimento ma dalla terra i corpi traggono spirito, sensazioni e immaginario. Anche qui dunque espropriazione e distruzione della terra come devastazione dei luoghi della generazione della vita e del piacere. Questa questione si impone al dibattito nelle aree avanzate negli anni ’90 e ha forti radici nelle lotte degli anni ’80 nel Terzo Mondo. E ovviamente quelle lotte hanno una lunga storia dietro attraverso cinque secoli di capitalismo, e anche prima. E’ una storia antica.

Iniziamo allora dalla devastazione dell’orto e del giardino interni al corpo femminile rappresentata dall’abuso dell’isterectomia, tradizionalmente accompagnata da ovariectomia di ovaie sane. Affrontare tale questione mi è stato tutt’altro che facile perché ho dovuto scavare da sola e farmi una conoscenza delle patologie e dei rimedi plausibili e non plausibili. Ma sono portata per lo scavo solitario e la lotta corpo a corpo con il mostro che ne esce. Dopo è iniziato il confronto con i medici. Ma questo, di dover scavare in profondità attorno a una questione, anche da soli se nell’immediato non si può essere in di più, svelarla costruendo sapere, divulgandolo e allertando, credo sia un metodo obbligato che sempre più “vitattivisti” cioè attivisti applicati al come si produce e riproduce la vita, dovranno sobbarcarsi. Si tratta di affrontare le moltiplicantesi questioni che nella morsa di un assedio stringente stanno pregiudicando l’integrità e la salute dei corpi in quanto minano i meccanismi e i poteri riproduttivi della vita. Ovviamente di questo argomento su cui sono impegnata da anni con medici e donne sono disponibile a parlare più approfonditamente ove venissi chiamata a discuterne. Ho deciso di fornire oggi almeno alcuni dati avvisando che si tratta di un abuso gravissimo di cui è bene siano consapevoli sia uomini che donne perché quando un uomo deve affrontare un’operazione di solito le donne lo aiutano a prendere informazioni, lo consigliano e lo assistono. Nel caso di questa operazione la donna invece viene spesso lasciata sola a decidere col medico e, se il partner dà un consiglio, spesso per incompetenza, ma anche per cercare di tranquillizzare la sua compagna, rischia di dare il consiglio sbagliato: “ma sì, togliti l’utero, tanto ormai a cosa ti serve”. In Italia le isterectomie dal 1994 al 1997 passano da 38.000 a 68.000 l’anno causando l’aspettativa di subire quest’operazione per 1 donna su 5, in alcune regioni come il Veneto 1 su 4. Nemmeno la peste fece tante vittime. Nel ’98 e nel ’99 sfiorano le 70.000. Tale operazione ha molte conseguenze negative che investono la sfera fisica, psichica e relazionale della donna, vede insorgere complicazioni nel 50% circa dei casi, ha un rischio di morte di 1 o 2 donne (dipende dalla procedura) su 1000 (un tasso di rischio quindi non irrilevante), per cui va considerata solo nelle poche patologie in cui non si possono percorrere strade alternative. Altrettanto occorre informarsi bene delle procedure molto diverse oggi disponibili perché anche dalla relativa scelta dipende una maggior tutela del corpo femminile e della qualità di vita della donna. Al confronto con la vicina Francia, e ad un attento esame delle patologie per cui l’isterectomia viene praticata pur essendo possibile percorrere altre vie, l’80 per cento di tali operazioni in Italia risulterebbe, come ho comunicato al Ministero della Sanità, infondato. In Francia vi è l’aspettativa di subire tale intervento per 1 donna su 20, a Parigi e regione 1 su 25, e l’andamento è verso un’ulteriore diminuzione. Quindi, per quanto riguarda l’Italia e altri paesi, Stati Uniti in testa, siamo di fronte a una massiccia quanto gratuita menomazione del corpo della donna. Difenderne invece l’integrità (molte relazioni familiari o di coppia vengono danneggiate o distrutte da quest’intervento) è una questione fondamentale su cui iniziative anche di movimento possono contribuire a creare sensibilizzazione, conoscenza e supporto. Sono in questione il tipo di scienza che ci investe, gli interessi della professione medica, le ulteriori deformazioni prodotte nel sistema sanitario dagli indirizzi dei grandi organismi finanziari che, in un’ottica neoliberista, riducono sempre più a merce la vita dei cittadini e il corpo fisico e sociale che la racchiude. Reimpadronirsi di un sapere medico di base è fondamentale per creare opposizione e rifiuto non solo rispetto all’abuso di questa operazione, ma a varie pratiche aggressive della medicina che in quanto tali provocano morbilità, invalidità e infelicità ma con questo anche miseria perché generano sempre più dipendenza dei cittadini dal mercato-laboratorio a scapito delle loro energie vitali creative e delle loro risorse economiche. Il che rappresenta la scarsità di salute e la capitalizzazione dei meccanismi riproduttivi della salute create da questa medicina. Vale la pena di cogliere quest’occasione per allertare ancora riguardo a cosa sta succedendo sul corpo femminile. Segnalo la già praticata anche in Italia “chirurgia profilattica” consistente nell’asportare ambedue i seni sani assieme ad ambedue le ovaie sane a donne che, in quanto portatrici del cromosoma Brca1 o Brca2 vengono considerate ad alto rischio di cancro alla mammella e/o alle ovaie. Ma, come ammettono gli stessi medici, non è certo che quelle donne avrebbero contratto un cancro in tali sedi né che dopo tali mutilazioni non lo possano comunque contrarre.

La seconda questione concerne il lavoro di riproduzione, chiamato anche lavoro domestico, fermo restando che il lavoro di riproduzione rappresenta molto più di quello che si intende comunemente per lavoro domestico. Rimando in merito a trent’anni di letteratura del filone femminista operaista o da tale filone comunque derivata. Qui è opportuno richiamare alla memoria alcuni passaggi fondamentali. Negli anni ’70 in Italia vi erano due grandi anime nel femminismo: l’una l’autocoscienza, l’altra il femminismo operaista di Lotta Femminista che poi divenne i gruppi e comitati per il salario al lavoro domestico. Lotta Femminista era presente a livello nazionale, particolarmente forte in alcune regioni come il Veneto e l’Emilia, meno forte in grandi città come Milano ove prevaleva l’autocoscienza o Roma ove comunque avevamo due gruppi. Eravamo arrivate fino a Gela in Sicilia, anche lì avevamo un gruppo. E soprattutto, fin dal 1972, quando cioè avevamo fondato il Collettivo Internazionale Femminista per promuovere il dibattito e l’azione in vari paesi, avevamo una grande rete internazionale particolarmente presente negli Stati Uniti e in Canada oltre che in alcuni paesi europei, in particolare Gran Bretagna, Germania e Svizzera, per cui facevamo spesso convegni internazionali per concertare il nostro agire. Di tale circuito facevano parte anche donne afroamericane. Dicevano che la forte presenza italiana in tale circuito gli aveva reso concepibile di entrare a farvi parte perché le italiane avevano poco potere (una specie di donne del Terzo Mondo ai loro occhi). Se si fosse trattato solo di americane o inglesi, bianche, non sarebbero entrate. Ricordo che fin dai primi anni ‘70 feci alcuni viaggi girando per tutti gli Stati Uniti e in alcune grandi città del Canada per portare il nostro discorso sul lavoro domestico dalla costa atlantica a quella del Pacifico (e venendo derubata dei pochi denari a El Paso). Gli spostamenti aerei, ma ho viaggiato molto anche con la corriera, mi venivano pagati dalle compagne americane che mettevano 1 dollaro ciascuna perché andassi a parlare. Ma contemporaneamente varie Università, di cui molte avrebbero adottato Potere femminile e sovversione sociale come classico femminista, mi invitavano a fare conferenze. Per cui anche da questo ricavavo un po’ di soldi per gli spostamenti. Una Università a New York nel ’73 mi offrì l’insegnamento e, per formalizzare la cosa, mi fece sostenere un esame colloquio con alcuni docenti perché potessi iniziare il corso appena cominciava l’anno accademico. Ma, tornata in Italia, scrissi che rinunciavo. Non potevo concepire di abbandonare il lavoro politico (Lotta Femminista era ancora piccola, non potevo lasciarla sola). Loro non capirono la mia risposta. Si arrabbiarono moltissimo. Ma a questo lavoro e ricerca politica io ho sempre subordinato ogni scelta di vita. Anche in questo Potere Operaio mi aveva forgiata: militante.

Come avvenne il distacco di alcune donne da Potere Operaio per dare vita a Lotta Femminista?

Per quanto mi riguarda devo dire che quando entrai in Potere Operaio una compagna più anziana di me, Teresa Rampazzo, mi chiese: “Perché sei entrata in Potere Operaio ?” e poi senza nemmeno attendere la risposta ma dandola per scontata aggiunse “Anche tu per un’esigenza di giustizia vero?” “Sì” dissi. Aveva intuito giusto. E anche a me la risposta sembrava scontata.

Se dovessi dire invece perché sono uscita da Potere Operaio riunendo nel giugno ’71 quel gruppo di donne che sarebbe divenuto il primo nucleo di Lotta Femminista dovrei dire: “Per dignità”. Il livello a cui in quel tempo era attestato il rapporto uomo-donna, in particolare nell’ambiente dei compagni intellettuali, non era a mio avviso sufficientemente dignitoso. Quindi sottoposi a queste compagne un ciclostilato che poi, un po’ rielaborato, sarebbe divenuto Potere femminile e sovversione sociale, il piccolo libro che il movimento femminista internazionale praticamente adottò subito provvedendo a farlo tradurre in sei lingue. Diedi così il via al primo atto dell’autonomo organizzarsi di donne del filone operaista ma molte altre ci raggiunsero presto da altre provenienze o da nessuna provenienza politica poiché evidentemente le cose tra uomini e donne non andavano bene in generale.

La seconda ragione fu l’esigenza di quello che allora veniva chiamato il processo di autoidentificazione. Le donne che definivano se stesse, l’autonomo processo di costruzione della loro identità non più attraverso gli occhi o le aspettative di un uomo. Ricordo un documento americano che circolò molto, dal titolo piuttosto strano, “Donna identificata donna”ma molti altri erano sulla stessa onda. Dopo che ci mettemmo in salvo come dignità e come identità (ma è più un dopo psichico che temporale) iniziò il ragionamento, la riflessione su dove fosse l’origine malvagia del nostro disagio, della nostra condizione, l’origine dello sfruttamento e dell’oppressione della donna. La individuammo nel lavoro di riproduzione, il lavoro domestico gratuito in quanto ascritto alle donne nella divisione sessuale capitalistica del lavoro. Il che non toglie che alcune di noi, mosse dall’esigenza di risalire alle più lontane origini della disgrazia femminile facessero anche degli studi sul rapporto uomo donna nella preistoria, su patriarcato e matriarcato, e quegli studi esistono, ma l’urgenza (operaistica) di avere analisi utili all’intervento fece presto concentrare tutto l’impegno sul periodo capitalistico. Svelammo l’arcano della riproduzione analizzando come la produzione e riproduzione della forza-lavoro costituisse la fase nascosta dell’accumulazione capitalistica. Svelammo l’arcano ma non il segreto. Perché devo anche dire che ogni riproduzione che si rispetti ha un suo segreto. Allargammo il concetto di classe ad includervi le donne in quanto produttrici e riproduttrici della forza-lavoro. Guardavamo fondamentalmente alle donne proletarie e di classe operaia. Dietro le porte chiuse di casa le donne erogavano un lavoro che non aveva retribuzione né orario né ferie ma tendeva anzi ad occupare tutto il tempo della loro vita. Lavoro che constava di mansioni materiali e immateriali e che condizionava tutte le loro scelte. Definimmo la famiglia come luogo di produzione in quanto quotidianamente vi si produceva e riproduceva la forza-lavoro; fino ad allora invece altre avevano sostenuto oppure continuavano a sostenere che la famiglia era luogo di mero consumo o di produzione di valori d’uso o solo luogo di riserva di forza lavoro. Sostenemmo che il lavoro esterno non eliminava né trasformava sostanzialmente il lavoro domestico ma aggiungeva semmai un secondo padrone al primo rappresentato dal lavoro stesso del marito. Per cui l’emancipazione attraverso il lavoro esterno non fu mai tra i nostri obiettivi. E nemmeno la parità con l’uomo. A chi avremmo dovuto essere pari noi che eravamo oberate da un lavoro che all’uomo non toccava? Inoltre, in un momento in cui si era fortemente imposto il discorso sul rifiuto del lavoro perché mai avrebbe dovuto costituire per noi una meta ciò che gli uomini dicevano di voler rifiutare? Nella società fordista di quegli anni, dunque, avevamo svelato che la produzione scaturiva fondamentalmente da due poli, la fabbrica e la casa, e che la donna, proprio perché con il suo lavoro produceva la merce fondamentale per il capitalismo, la forza lavoro stessa, aveva in mano una leva fondamentale di potere sociale: poteva rifiutare di produrre. Per ciò stesso costituiva la figura centrale della “sovversione sociale” come dicemmo nel gergo di allora, cioè di una lotta che poteva condurre ad una radicale trasformazione della società. E devo dire che, nonostante i profondi mutamenti intervenuti poi nel modo di produrre, questo zoccolo duro della responsabilità femminile riguardo alla riproduzione, e questa spessa consistenza del lavoro di riproduzione, restano come problemi insoluti, riproponendoci la persistenza di una fondamentale binarietà. Ma la binarietà, anzitutto il maschile e il femminile, sta a mio avviso scritta nell’universo. Forse dovremmo osservarla e capirla meglio per non darla facilmente come in via di estinzione mentre ci applichiamo per renderla non iniqua.

Per l’attività di intervento ci rivolgevamo, come dicevo sopra, alle donne proletarie e di classe operaia. Ma il lavoro di riproduzione costituiva a livello generalizzato l’elemento fondante della condizione femminile. Muoversi contro tale condizione allora voleva dire anzitutto innescare un comportamento di rifiuto di tale lavoro in quanto gratuito e in quanto primariamente ascritto alle donne, voleva dire aprire una contrattazione con lo stato perché gli fosse destinata una quota parte della ricchezza prodotta, sia in forma di denaro che di servizi, perché gli fosse riservato un tempo, anziché fingere che costituisse un optional facilmente combinabile con il lavoro esterno. Il rifiuto ovviamente concerneva sia la riproduzione materiale che immateriale. Fondamentalmente le donne andavano sostituendo ad una femminilità fatta di lavoro per altri, di enorme disponibilità a vivere in funzione di altri, una femminilità in cui tutto questo si riduceva per lasciar posto ad una riproduzione per se stesse. La tematica del lavoro domestico d’altronde era strettamente intrecciata a quella della sessualità che era stata stravolta in funzione procreatrice-riproduttiva. Per cui le lotte su lavoro, sessualità, salute e violenza erano strettamente intrecciate. E su questo alcune compagne condussero degli studi molto penetranti che naturalmente esistono anch’essi. Nel lavoro di riproduzione in gioco erano i corpi e con ciò le relazioni e le emozioni. Lottammo dai quartieri (lotte molto belle anche per la casa, anzi quella fu la nostra prima lotta, l’unica di cui non esiste documentazione) agli ospedali alle scuole alle fabbriche. A Padova il 5 giugno ’73 facemmo partire la lotta per l’aborto trasformando in mobilitazione politica un processo intentato contro una donna che aveva abortito. Dopo anni di mobilitazione con tutto il Movimento femminista avremmo ottenuto nel 1978 la legge 194 che riconosceva il diritto di interrompere volontariamente e con assistenza sanitaria la gravidanza. A Padova organizzammo nel ’74 il “Centro per la salute della donna” un consultorio autogestito femminista, il primo in Italia cui ne seguirono altri in varie città. L’esperienza dei consultori autogestiti voleva costituire un’esemplarità e un momento propulsore nella reimpostazione del rapporto donne medicina, in particolare nell’ambito della ginecologia, data anche l’imminenza della legge istitutiva dei consultori familiari che intervenne nel 1975, la 405. Negli ospedali, in vari reparti di ostetricia, definiti al tempo “lager maternità” conducemmo delle grandi lotte (ricordo anzitutto a Padova, a Ferrara, a Milano). Per le lotte nelle fabbriche fu esemplare quella alla Solari (che poi si estese come modello ad altre fabbriche) con cui le operaie pretesero che il padrone gli garantisse un tempo retribuito e un servizio medico per poter effettuare gli esami e le visite ginecologiche di routine senza dover perdere giorni di lavoro o rinunciare a prendere cura di se stesse. E fu importante quella in un paese del Veneto contro una fabbrica che emetteva miasmi intollerabili ed inquinava l’acqua.

Come dicevo avevamo dei livelli organizzativi nazionali e internazionali ma ciò che era stupefacente era il livello di estrema povertà di mezzi con cui tutta questa attività veniva condotta. I mezzi di comunicazione erano fondamentalmente il volantino e il giornale che operaisticamente si chiamava “Le operaie della casa”. Una militanza così esasperata, totalizzante, che non lasciava spazio ad altro nelle nostre vite era certamente derivata dall’esperienza di Potere Operaio ma penso che a quel tempo anche in altri gruppi la cosa fosse molto simile. E questo ovviamente era ancora più duro per quelle di noi che avevano una funzione trainante.

Verso la fine del decennio eravamo stremate da quel tipo di vita e militanza. Tutti i nostri margini di riproduzione erano stati erosi, margini notoriamente più stretti di quelli di cui godevano normalmente gli uomini, anche compagni. Ma dopo tante lotte e tanta militanza noi non vedevamo profilarsi all’orizzonte un avvio di trasformazione della realtà adeguato a recepire le istanze per cui avevamo lottato, in grado di accogliere il grande mutamento dell’individualità femminile che il nostro percorso aveva determinato e che non riusciva più ad entrare nelle forme dei rapporti e dell’organizzazione sociale che il capitalismo offriva. Teniamo anche presente che le donne che costituirono il Movimento femminista agli inizi non erano giovanissime, spesso attorno ai trent’anni

o più, donne che erano uscite da matrimoni gabbia per riconquistare il diritto all’emozione (ricordo molte che mi dicevano che quanto gli mancava con marito e figli in età scolare non era tanto la libertà sessuale ma il diritto di innamorarsi, e probabilmente, penso adesso, la gioventù prematrimoniale di quelle donne era stata troppo misera). Insomma a quel punto avremmo avuto bisogno di individuare un progetto di trasformazione sociale effettiva e le forze con cui attuarlo visto che non avremmo potuto certo realizzarlo da sole. Ma questa era stata sempre la parte del discorso più evanescente anche per noi, quella di cui non si poteva parlare perché proprio la forza delle lotte l’avrebbe determinata. Ma così non era stato e noi non avevamo più la forza di lottare. Io comunque ricordo che il problema di riuscire ad individuare uno sbocco, “il passaggio”, l’avevo avuto ben presente da anni, già in Potere Operaio, ma il compagno a cui ne avevo accennato, Guido B., era stato evasivo come se quella risposta non potesse nemmeno essere abbozzata. Avevo dedotto in cuor mio che forse dovevo ancora farmi le ossa, ero troppo acerba per un problema che era troppo grande. Ma io l’avevo posto anche perché non potevo immaginare di continuare per tutta la vita ad alzarmi alle 4 del mattino per volantinare Porto Marghera o la Montedison di Crotone cercando di generalizzare le lotte. Fino a quando, fino a dove, e dopo? Certo è che il problema me lo sarei ritrovato nel femminismo, anche qui senza sapere con chi ragionarne.

Dopo dieci anni circa il corpo delle donne, anche le militanti hanno un corpo per quanto spesso negato, sentiva l’orologio biologico segnare altre scadenze. Ad esempio per le donne che desideravano fare un figlio ed era già tardi e dovevano decidere con chi e in quale assetto di vita allevarlo.

Nella mancanza di una trasformazione sociale all’altezza della nuova individualità femminile cominciò il processo di resa. Molte dovettero arrendersi. Quanto e come dipese dal denaro di cui queste donne potevano disporre, dal tempo libero che potevano avere, dal tipo di lavoro per procurarsi quel denaro. Il vecchio problema della mancanza di denaro delle donne su cui tanto avevamo lottato rivelò ancora, particolarmente in quella fase, tutta la sua drammaticità.

A ridosso di tale momento di crisi arrivò la repressione e con essa la cancellazione totale, specialmente ad opera di sociologhe e storiche di sinistra, di quel filone femminista, delle sue lotte e delle sue opere. Polda ed io comunque avevamo avuto cura di documentare, sacrificando come al solito il sabato, la domenica e le altre feste comandate, in libretti destinati ad un uso militante, in fascicoli e nel giornale, praticamente tutti i momenti di lotta e mobilitazione e le questioni fondamentali che ricorrevano nel dibattito. E quel materiale esiste. Negli anni ’80, anni di repressione e normalizzazione, un femminismo fondamentalmente culturale avrebbe preso il posto di quello delle grandi lotte con una funzione di controllo e selezione delle istanze e delle voci. Noi fummo messe all’indice. Molto faticosamente, date le circostanze, furono portati a termine dei lavori di carattere storico e teorico da parte di alcune compagne, lavori concepiti ancora negli anni ’70 come parti di un progetto complessivo che non è più andato in porto. Dire che quei lavori hanno avuto una circolazione piuttosto ostacolata è usare un eufemismo. Praticamente scomparvero (salvo il momento di esistenza costituito dal mio insegnamento all’Università) sommersi da una volontà politica avversa e da una profusione di studi sulla condizione femminile di altro segno. La nostra produzione ci venne anche largamente espropriata e addomesticata. Sullo studio della condizione femminile le istituzioni manifestarono un notevole impegno, si rovesciarono finanziamenti, reti e ricerche sempre avvedutamente incanalati. Si crearono enti e iniziative di facciata. Il problema del lavoro di riproduzione rimase inevaso. Il discorso sulla retribuzione per il lavoro domestico messo all’indice anche quello. Tale questione avrebbe trovato una molto parziale e falsa soluzione con la forza lavoro immigrata che a sua volta si lascia alle spalle drammi di riproduzione (ad esempio i figli piccoli che, rimasti coi nonni, poi non vogliono più ricongiungersi ai genitori sconosciuti, e i nonni che impazziscono se, già rimasti solo coi nipoti, vedono i figli tornare per portarsi via per sempre anche quelli).

Ad un certo punto dei bui anni ’80, in cui dovetti comunque affrontare alcuni problemi di vita anche le militanti hanno una vita per quanto rimossa -ebbi l’esigenza di riflettere sotto altri aspetti riguardo al periodo precedente e di sottoporre quel periodo all’infallibile test delle emozioni. Avrei dovuto riconoscere che né nella mia militanza in Potere Operaio né in quella nel Movimento Femminista avevo mai avuto un momento, dico anche un solo un momento, di gioia. Ricordavo solo una grande, immensa fatica. Una fatica necessitata dentro Potere Operaio dal senso di giustizia, dentro il Movimento femminista dal senso della dignità e della necessità di acquisire un’identità. Certamente l’esperienza dentro Potere Operaio mi aveva dato grandi strumenti interpretativi della realtà e quella dentro il Movimento femminista, oltre ad altri strumenti interpretativi aveva fornito a me come a moltissime altre donne una grande forza, solidità ed equilibrio che nessun uomo più sarebbe stato in grado di infrangere. Ci aveva messo la terra sotto i piedi. Ricordo anche molte compagne che mi dissero che il Movimento femminista le aveva salvate dalla pazzia. Ma non ricordavo un solo momento di gioia. Molti di sofferenza nell’una e nell’altra esperienza. Come mai? Per quanto riguarda il Movimento femminista ho provato a mettere in conto tutto, anche la malinconia causata dalla rottura di un’appartenenza, in fondo come dicevo sopra, in Potere Operaio ero nata e mi ero formata, quindi mi pesava molto la separazione totale del dibattito. Di conseguenza a tale separazione i compagni che non conoscevano minimamente lo svilupparsi del nostro discorso sulle tematiche per noi centrali rimanevano indietro e riuscivano a dare, quando ci incrociavano, risposte che rimanevano a livelli barbarici. Altrettanto noi rimanevamo all’oscuro del loro dibattito mentre, come dicevo, avremmo avuto la necessità di confrontare la discussione su alcune questioni che divenivano sempre più importanti. Almeno, io avevo quest’esigenza. Per cui sarebbe stato necessario, pur nella nostra autonomia, avere anche dei momenti di confronto. Non so se e quanto sarebbe stato possibile in quegli anni in Italia mentre non ho mai avuto problemi a discutere con i compagni americani del gruppo di Midnigth Notes ad esempio. Ma era un gruppo che si era formato a seguito dell’emergere negli Stati Uniti dei gruppi Wfh Wages for Housework (Salario al lavoro domestico) e che aveva riorientato il dibattito e l’approccio alla lettura dello sviluppo capitalistico nel mondo in base alla centralità data alla questione del lavoro di riproduzione. Quindi erano studiosi che già nella loro formazione avevano introiettato la nostra analisi femminista di cui avevano grande padronanza. Compagni che hanno continuato a produrre fino ad oggi studi molto interessanti e iniziative politiche significative.

Fatto sta che, cercando la causa della mancata gioia, dovetti ammettere che l’ambito su cui avevo lottato negli anni ’70 davanti alle fabbriche o nelle case, fondamentalmente il binomio tempo denaro (pur coniugandolo con la nocività in fabbrica, e pur coniugandolo, per quanto riguardava il Movimento femminista, con le lotte su parto, aborto, contro una sessualità lavorativa, contro la violenza e altro ancora) costituiva un terreno che non era riuscito a muovere le mie correnti profonde per farne scaturire flussi di energia vitale. Per questo non avevo provato gioia (e non la provo nemmeno nella lotta contro l’abuso chirurgico sul corpo femminile). Quello che mi mancava era appunto qualcosa capace di emozionarmi positivamente, di suscitarmi un immaginario forte, in grado di dischiudere scenari differenti. Avevo bisogno di incontrare altre questioni e soggetti nuovi, desiderosi e capaci effettivamente di pensare un mondo diverso. Per cui per una parte degli anni ’80 continuai a peregrinare di stanza in stanza nella casa della riproduzione. Fino che ad un certo punto individuai la porta che immetteva nell’orto e nel giardino, individuai la questione della terra. Quella porta mi venne spalancata dai nuovi soggetti che cercavo, i soggetti delle ribellioni indigene, i movimenti degli agricoltori, dei pescatori, delle popolazioni contro le dighe o la deforestazione, delle donne dei vari sud del mondo (ma fortunatamente ormai anche uomini e donne dei paesi avanzati) che ponevano tutti come centrale la questione della terra. Tutti soggetti in lotta contro la sua privatizzazione ed espropriazione, e contro la distruzione dei suoi poteri riproduttivi rappresentata dalla Rivoluzione Verde (di cui gli Ogm sono l’ultima fase), dalla Rivoluzione Bianca e dalla Rivoluzione Blu, rivoluzioni che costituiscono tutte la devastazione dell’orto e del giardino della riproduzione esterni ai corpi. Questi erano i soggetti che cercavo, che hanno incrociato la mia ricerca e il mio sentire, che mi hanno emozionato e dato gioia perché mi hanno fatto intravedere un mondo diverso a partire dalle modalità con cui si produce e riproduce la vita. La vita delle piante, degli animali, del genere umano. La terra non serve solo a dare nutrimento ma dalla terra il corpo trae spirito, sensazioni e immaginario. In questo territorio ho incrociato le voci e l’azione di Rigoberta Menchù, di Vandana Shiva, di Marcos. Tra l’altro con Vandana Shiva, Maria Mies, Farida Akter e moltissime altre da tutti i sud del mondo, e con la rete di La Via Campesina, già nel ‘96 proprio qui a Roma organizzammo un convegno alternativo a quello della Fao sul problema dell’alimentazione, il primo controvertice cui seguirà il secondo tra pochi giorni.

La terza questione quindi, quella della terra, mi offrì finalmente momenti di gioia, di emozione e di ispirazione. Devo anche dire che in quegli anni feci frequenti viaggi in vari paesi del Terzo Mondo, spesso in Africa, per cui mi resi conto direttamente di cosa voleva dire viverci, come difficoltà ma anche come potenza suggestiva di un mondo diverso. E quel mondo l’avevo trovato perché ne avevo bisogno, l’avevo cercato.

La questione della terra obbligava prepotentemente a ripensare quella della riproduzione, riproduzione dell’intera umanità se vogliamo pensare in termini globali. Se infatti nelle aree avanzate la riproduzione passa attraverso l’omonimo lavoro che nel suo svolgersi deve amministrare fondamentalmente denaro, non quello destinato direttamente a retribuirlo che non arrivò mai, ma la famosa busta paga del marito o, più postfordianamente, le due entrate dei precari lavori esterni di lui e di lei, nel Terzo Mondo (che resta Terzo anche se entra nel Primo o se il Primo entra nel Terzo) la riproduzione passa (va) anzitutto per il lavoro del campo, cioè il lavoro agricolo destinato alla sussistenza o comunque al consumo locale, secondo regimi comunitari o di piccola proprietà.

Per apprezzare in tutto lo spessore tale questione sia sotto l’aspetto della privatizzazione che dell’espropriazione e distruzione dei poteri riproduttivi della terra, dobbiamo rileggere il decennio degli anni ’80. Se è indubbiamente vero che quegli anni in Italia sono anni di repressione e di normalizzazione, nel Terzo Mondo sono gli anni dell’aggiustamento drastico dettato ai vari governi dal Fondo Monetario Internazionale. L’aggiustamento ha riguardato pressoché tutti i paesi e quindi anche il nostro, ma le sue modalità nel Terzo Mondo contemplano misure che non si danno per noi. Ad esempio il ritiro delle sovvenzioni ai beni alimentari di prima necessità e soprattutto la forte raccomandazione del Fondo ai governi di fissare un prezzo alla terra, di privatizzarla là dove è ancora un bene comune (come era per larga parte dell’Africa) rendendo con questo pressoché impossibile l’agricoltura per l’autoconsumo. Questa misura (aggravata negli anni di cui parliamo dal corredo delle altre misure tipiche dell’aggiustamento) costituisce a mio avviso la prima causa della fame nel mondo e della produzione di una popolazione che appare sempre più sovrabbondante perché resa, come cinque secoli fa, “senza terra”. Ritengo che l’applicazione sempre più drastica delle politiche di aggiustamento negli anni ’80 abbia rappresentato una grande operazione di sottosviluppo della riproduzione a livello globale. Ha costituito il momento programmatorio del neoliberismo. Infatti, abbassando le condizioni di vita e le pretese di vita, provocando una povertà senza precedenti, ha fornito il prerequisito per il decollo della nuova economia globalizzata: per il dispiegarsi del neoliberismo a livello mondiale in quanto richiede più sacrifici ai lavoratori affinché le imprese possano meglio competere nell’economia globale; per l’attestarsi delle nuove modalità produttive tese ad abbassare il salario e ad incentivare la deregolamentazione del lavoro; per il radicarsi della nuova divisione internazionale del lavoro che ristratifica nel mondo il corpo sociale lavoratore in termini sempre più pesanti sia nell’ambito della produzione che della riproduzione. Negli anni ’80 cominciano quei suicidi di contadini in India che negli ultimi tre anni sono stati più di 20.000, agricoltori impossibilitati a pagare i debiti contratti per comprare sementi e pesticidi. Un genocidio! Ma se i suicidi di massa danno la misura della fame e della morte portate dalla Rivoluzione Verde e dalle misure di aggiustamento, dobbiamo tenere in conto che gli anni ’80 sono anche gli anni delle numerose lotte contro tali misure (dall’America Latina, all’Africa all’Asia) e contro l’espropriazione della terra, contro il suo avvelenamento, contro lo stravolgimento e distruzione dei suoi poteri riproduttivi. I soggetti che conducono quelle lotte daranno vita ad una serie di reti e di organizzazioni, a movimenti che ritroveremo negli anni ’90 come componenti del grande movimento antiglobalizzazione che non a caso verrà chiamato “movimento dei movimenti”. Ritengo che il primo momento di coagulo di tali realtà e quindi di decollo di tale movimento sia stato segnato dall’incontro intercontinentale “per l’umanità contro il neoliberismo” convocato dagli zapatisti alla fine luglio -inizio agosto ’96 in Chiapas. L’insurrezione zapatista aveva al centro la questione della terra, anche a causa della revisione dell’art. 27 della Costituzione messicana oltre che di quanto implicava l’accordo Nafta. Di Marcos dico sempre che con il suo solo apparire nel ’94 ha liberato i cavalli aprendo le staccionate in cui era rinchiuso il dibattito occidentale che ignorava o almeno trascurava pesantemente tale questione. I militanti sono accorsi e hanno cooperato da tutto il mondo perché Marcos aveva anche liberato il loro immaginario: era un uomo a cavallo con un passamontagna color della terra e l’erba sotto i piedi. E sapeva parlare in poesia. Terra, uomo e animali separati e contrapposti nella macchinizzazione capitalistica della natura, nell’industrializzazione dell’agricoltura e dell’allevamento, si ricongiungevano di nuovo dischiudendo effettivamente uno scenario diverso.

Queste brevi considerazioni sulla centralità del problema della terra nel discorso sulla riproduzione cosa implicano per le questioni che qui stiamo in qualche modo riprendendo? A mio avviso la prima implicazione è che un discorso su quella che si chiamava un tempo “ricomposizione politica” per essere all’altezza della nuova economia globale non può prescindere dall’assumere la centralità di questo problema e dal chiedersi come rapportarsi alle lotte che già ci sono. Perché sull’espulsione continua di enormi quote di popolazione dalla terra si fonda la possibilità di rifondare e ristratificare continuamente la classe dell’economia globale. E’ evidente infatti che solo una piccola quota di tali espulsi troverà lavoro più o meno in nero e a prezzi bassissimi. La stragran parte è destinata ad essere decimata dalle guerre, dalle difficoltà economiche, dall’inedia, dal placet al dilagare di epidemie, dalla repressione militare e poliziesca. E’ come se tutto l’impegno politico di chi lotta nel mondo venisse buttato in un sacco che perde perché è senza fondo. Occorre cominciare a chiedersi come chiudere il fondo. Ammetto che ho cominciato a sognare come cambierebbe la stratificazione del lavoro se quote consistenti delle moltitudini espulse si riprendessero la terra e cosa ne sarebbe del capitalismo. In fondo è partito da lì. Capisco poco allora l’accusa di terzomondismo o di turismo terzomondista. Ai miei studenti tra l’altro dico sempre che è bene che al più presto si facciano un viaggio nel Terzo Mondo, anche solo turistico. Meglio solo turistico che niente. E’ fondamentale per capire il rapporto sviluppo sottosviluppo capitalistico. Ma, per quanto riguarda l’impegno militante invece, mi sembra fondamentale che si siano costruite iniziative, vitattività, di cooperazione politica seriamente intesa (altri riempiono il Terzo Mondo di iniziative di cooperazione non serie). Iniziative che, in Chiapas, ad esempio, hanno permesso di costruire una turbina elettrica e ospedali. Rimane vero infatti che per poter lottare bisogna continuare a vivere e quindi non morire o essere debilitati e compromessi da malattie curabili se ci fossero le strutture. La serietà sta anche nel discutere e mettere a punto con la popolazione locale come effettuare la manutenzione di tali strutture in modo facile e tempestivo affinché, partiti i compagni, la struttura non resti inutilizzabile come avviene invece di regola nei progetti di cooperazione poco seri. Nel lavoro avviene un travaso e un incrocio di competenze e di saperi, avviene soprattutto la costruzione di un legame che va oltre quell’opera, è un momento di quella ricomposizione politica che in modi diversi sta costruendo momenti organizzativi, reti di comunicazione e cooperazione, mattoni di un progetto/insieme di progetti per arrivare effettivamente a costruire un mondo diverso. Può darsi che si stia solo intravvedendo la luce del “passaggio” ma è già qualcosa.

Un altro punto che è urgente smitizzare a tale proposito è che “non si può mai tornare indietro”. Il che è come bollare di inadeguato e comunque arretrato tutto ciò che è stato prodotto, pensato e messo a punto prima delle ultime malefatte capitalistiche. Il che fa il gioco dei malfattori. Loro la fanno e a noi non resta che giocare nell’ambivalenza. In particolare sul problema della terra e dell’acqua questo discorso non regge. Esemplare del discorso opposto, e quindi del fatto che occorre opporsi di netto obbligando la controparte a mollare il maltolto, e tornare indietro ripristinando la soluzione precedente, è la lotta di Cochabamba in Bolivia: contro la privatizzazione dell’acqua decisa dal governo a favore di una compagnia che ne avrebbe detenuto il monopolio assoluto, la Coordinadora cittadina ha lottato duramente e vinto non solo nel senso di ripristinare l’acqua come bene pubblico ma di cogestirla ripristinando anche quell’organizzazione dei pozzi già perfettamente messa a punto dagli Incas e che da allora era stata mantenuta fino a prima della vicenda di privatizzazione. Altrettanto, l’organizzazione degli agricoltori in Colombia che hanno deciso e (attuato) di reimpadronirsi di vaste aree di terra, di recuperare le varie specie di legumi e piante commestibili di cui si rischiava di perdere memoria (recuperarle questa volta mantenendo il segreto) nonché di riattivare vecchi sistemi agricoli e culinari, rappresenta, di contro a logiche agricole devastatrici e affamatorie, questo tornare indietro per recuperare lo spirito e la vita. Ma nella stessa direzione sono sempre più numerose le reti di agricoltori nel mondo collegate tra diversi continenti.

Queste sono soggettività forti che hanno deciso di cambiare il mondo a partire dalla domanda fondamentale sempre più inevasa. Come si fa a vivere?

Una risposta, istituzionale questa volta, che coglie meglio di altre il senso di queste istanze è la restituzione in Nepal della foresta alle comunità attraverso concessioni. Si è rivelata la soluzione migliore rispetto a tutti gli altri programmi di lotta alla povertà perché ha reinnestato quel rapporto e quelle attività degli umani con la terra che garantiscono la vita non degradata della foresta e degli uomini. Anche su questo tema di riavere la foresta per vivere (là dove la cosa ha un senso) le iniziative dagli anni ’80 sono numerose. Ma si pensi ancor prima al Green Belt Movement (che aveva ricostituito cinture verdi di foresta attorno alle città là ove prima erano solo spazi aperti) creato nel ’77 dalla kenyota Wangari Maathai partendo dall’idea “riforestare per vivere”.

Mi ha fatto piacere vedere nelle pagine introduttive al seminario che si parla anche della necessità di pensare ad un’ “altra scienza”, ad “altri macchinari”. Lo pensavo anch’io da tempo. Quelli adottati sono troppo portatori di una logica di morte, per cui è pressoché impossibile muoversi “dentro” e “contro”. In questo momento naturalmente ho molto presente la tecnologia agricola. E mi sovviene come anche qui nel Veneto, senza andar troppo distante, ci siano agricoltori (di scuola Steineriana) che sono riusciti a costruire con metodo biodinamico e con incroci una spiga di grano più molto più lunga e più ricca di chicchi di quella normale. Il che dimostra per l’ennesima volta che senza effettuare manipolazioni genetiche ed esporre a rischi la popolazione si possono mettere a punto grandi progressi agricoli. Varie aziende adesso stanno seguendo lo stesso metodo, anche economicamente più conveniente.

Proprio questo esempio ci conduce direttamente ad un’altra riflessione. Ho sottolineato più volte come la questione della terra rilevi anche sotto l’aspetto della distruzione dei suoi poteri riproduttivi. Questo aspetto è cruciale per il Terzo Mondo come per noi. Anch’esso obbliga a riaprire e ridefinire il discorso sulla riproduzione. Che ne faremo di un salario se potremo comprare solo veleno? Ed altrettanto, la garanzia di vita per l’umanità dipenderà più dal denaro o dalla disponibilità e salute, e quindi capacità riproduttiva, della terra? Che livello di ricatto e mancanza di libertà rappresenterebbe per l’umanità dover dipendere per la sopravvivenza solo ed esclusivamente dal denaro? Sono maturi i tempi per cominciare a coniugare le riflessioni su una garanzia di reddito con quelle sulla disponibilità della terra e la salvaguardia dei suoi poteri riproduttivi?

Un grande percorso organizzativo si è avviato nel mondo, un percorso in cui varie questioni come quelle legate alle tre Rivoluzioni, Verde, Bianca e Blu, all’espropriazione della terra e alle sue modalità di conduzione, richiedono anche la capacità di demolire il falso e spiegare il vero rispetto alle nuove e continue mostruosità-miracolo. Questioni che richiedono gruppi di lavoro o lavori solitari ad hoc per stanare i mostri, smascherarli e cacciarli. E altrettanto richiedono la determinazione a costruire o recuperare altri saperi, a mettere a punto altra tecnologia. Il grande mutamento viene a mio avviso da queste forti soggettività applicate a come si produce e riproduce la vita, da questi nuovi movimenti, di agricoltori, di pescatori, di popoli indigeni, di reti di donne che pongono come centrale il problema di quale rapporto con la terra, di nuovi inventori. Non si tratta più di lotte isolate, con difficoltà a farsi sentire e a collegarsi, come poteva darsi parecchi anni fa, data anche una certa sordità o vecchia impostazione del discorso su questo tema da parte della sinistra in generale e del mondo militante dei paesi avanzati. Su questo terreno invece la comunicazione e il collegamento intercontinentale, tra aree a capitalismo avanzato e non, si sono instaurati con un’efficacia e un convergere di intenti veramente planetario. Di contro all’espropriazione e alla devastazione della terra, dei fiumi, dei mari, i nuovi attori hanno detto ya basta e stanno mettendo punti fermi come punti costituenti di un progetto diverso, per un altro rapporto dei corpi con gli orti e i giardini della Terra.

Riferimenti bibliografici essenziali

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Silvia Federici e Leopoldina Fortunati

Il grande Calibano. Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale, FrancoAngeli, Milano, 1984.

Mariarosa Dalla Costa è docente di “Globalizzazione: questioni e movimenti” e di “Globalizzazione diritti umani e promozione della donna” presso il Dipartimento di Studi Storici e Politici della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova.

Mariarosa Dalla Costa, L’indigeno che è in noi, la Terra cui apparteniamo (relazione presentata al convegno “Per un’altra Europa, quella dei movimenti e dell’autonomia di classe”, tenutosi a Torino il 30 marzo 1996- english version), in Alessandro Marucci (a cura di) Camminare domandando, DeriveApprodi, 1999.