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PARTE II

Prolegomeni di un’ontologia della sovversione

Introduzione
La rivoluzione come preambolo

Ho tra le mani un piccolo libro, recentemente pubblicato da Suhrkamp, intitolato Mythologie der Vernunft. Hegels ältestes Systemprogramm des deutschen Idealismus (1). Esso raccoglie, oltre al testo e ad un’introduzione critica dei curatori, gli articoli che a questo piccolo e fondamentale scritto sono stati dedicati da Franz Rosenzweig, Otto Pögler, Dieter Heinrich, Annemarie Gethmann-Siefert. I curatori sono Christoph Jamme e Helmut Schneider. Non voglio entrare nella polemica sulla paternità del testo e fare un’ennesima congettura - se ne sia Hegel o Schelling o Hölderlin l’autore - tanto più che anch’io non sono in difetto in proposito, avendo studiato il problema nei miei primissimi esercizi filosofici (1958: sul giovane Hegel (2) e 1959: sulla storiografia (3) di Wilhelm Dilthey e della sua scuola) e poiché non mi sembra di poter rinunciare, sulla questione dell’attribuzione, alle conclusioni di Rosenzweig. Voglio solo riprendere questo << antichissimo >> testo come origine e farci attorno qualche considerazione.

Leggo qualche passo (in una mia libera traduzione) (4): << Un’etica. Poiché l’intera metafisica si concluderà nella morale - cosa della quale Kant con i suoi due postulati pratici ha solo dato un esempio senza ciò nulla esaurire - così quest’etica non sarà altro che un sistema completo di tutte le idee, ovvero, che è la medesima cosa, di tutti i postulati pratici. La prima idea è naturalmente la rappresentazione dell’io stesso, come di un’assoluta libera essenza. Con la libera, autocosciente essenza nel medesimo tempo vien [sic] fuori un mondo intero, dal nulla - l’unica vera e concepibile creazione dal nulla. - Io vorrei qui entrare

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nel campo della fisica, il problema è questo: come dev’essere costruito un mondo per un essere morale? Potrei così dar nuove ali alla nostra scienza fisica che avanza tanto lentamente attraverso esperimenti. Dalla natura vengo dunque all’opera umana. Innanzitutto l’idea di umanità - io voglio mostrare che non si dà alcuna idea di Stato, poiché lo Stato è qualcosa di meccanico, e non si dà idea di una macchina. Soltanto quello che è oggetto della libertà, questo si chiama idea. Noi dobbiamo dunque andar oltre lo Stato! Poiché ogni Stato deve trattare l’uomo come un ingranaggio meccanico; è appunto ciò che non si deve; quindi lo Stato dev’essere tolto. Consegue da ciò che qui tutte le idee di pace perpetua ecc. non sono altro che idee subordinate ad un’idea superiore. Vorrei nei medesimo tempo fondare principi di una storia dell’umanità e nel medesimo tempo mettere a nudo tutta la miserabile determinazione dello Stato, della costituzione, del governo, della legislazione. Vengono infine le idee di un mondo morale, la divinità, l’immortalità - rovesciamento dell’incredulità che è conseguenza del clericalismo - esso finge ora di usare la ragione, - bene, questo rovesciamento l’attueremo attraverso la ragione stessa. - Libertà assoluta per tutti gli spiriti che in sé portano il mondo intellettuale, che non debbono cercare né Dio né l’immortalità fuori di se stessi. In ultimo luogo l’idea che tutte le altre idee unifica, quella di bellezza...>>

Questo testo mi ha sempre sconvolto.

Potrei dire che tutta la prima fase del mio lavoro filosofico maturo (negli anni Sessanta: dallo studio sul formalismo dei giuristi kantiani (5) fino alla traduzione ed al commento degli scritti di Hegel del 1802-1803 (6), dagli studi sulla macchina dello Stato (7) alle parallele ricerche sul cartesianismo nell’ideologia politica e statuale (8) - che questa prima fase matura di lavoro filosofico non sia stata dunque altro che una riflessione sull’attualità di questi temi: riprendendone la fortissima valenza critica, e cioè guardando come l’opera umana della libertà venga resa meccanica e ridotta al nulla dai grandi poteri che le si oppongono la natura produttiva e lo Stato.

Ma debbo subito aggiungere che nei miei studi di allora, solo sulle sfondo resisteva il senso costruttivo di queste tematiche critiche, e cioè il tentativo di identificare che cosa potesse oggi essere una nuova mitologia della ragione, della libertà, un’estetica

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trascendentale che non fosse chiusa nelle maglie di una mediazione coatta. Quest’ultimo infatti era stato l’esito che quell’ << antichissimo programma >> aveva subito nello sviluppo della filosofia di Schelling e di Hegel. Di questo destino Hölderlin era impazzito. Noi lo rifiutavamo ma eravamo incapaci di liberarcene. Anche il marxismo era afflitto da questa malattia, inglobato nell’analitico specchio del potere. Quanto agli autori degli anni Venti e Trenta tedeschi, che soprattutti allora frequentavo: da Walter Benjamin a Theodor W. Adorno, da Ernst Bloch e Georg Lukacs - bene, per loro avvertire la crisi era un’esasperata dichiarazione di impotenza. Il cosiddetto pensiero della crisi, che tanta auge ha ora in Italia e altrove, noi allora interamente lo vivemmo (9).

Ma ritorniamo al frammento programmatico. La copia hegeliana è dell’inizio dell’estate del 1796. La grande Rivoluzione sta giungendo all’apogeo del suo sviluppo. Ora, nelle pagine del frammento, essa è il presupposto del sapere. Se la libertà umana è il fondamento, il sapere non può presentarsi che come etica e come costituzione. Giorgio Agamben, uno dei pochissimi filosofi italiani in questa stanca epoca, ha di recente nuovamente sottolineato questa verità (10). Come ha potuto allora, questa grande rivoluzionaria rifondazione, essere così brutalmente tradita? Come ha potuto, alla base della nostra cultura filosofica, la dialettica dell’idealismo tedesco, ripetere il gioco dagli atroci risvolti di una Dialektik der Aufklärung? Perché l’immediatezza di una nuova e potente estetica trascendentale, anziché svolgersi verso la sfera dell’immaginazione vera, è stata sottoposta alla mediazione dell’analitica trascendentale, a questa artificiosa prigione del desiderio di costituzione?

Leggo le Lezioni sulla fenomenologia dello spirito di Hegel tenute da Martin Heidegger (11). Vi sento, magistralmente interpretata, non una risposta alla questione bensì un’apologia di questo risultato. Heidegger mi offre il senso presente di un’ottusa analitica dello spirito, della storia e della libertà - che è divenuta impotenza dell’immaginazione e del corpo. L’effettivitá storica di questa comprensione aumenta il disagio a fronte della tragica consonanza con la quale l’autore l’accompagna.

Leggo Michael Theunissen, Sein und Schein. Die kritische

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Funktion der hegelschen Logik (12). Siamo qui fra gli epigoni della francofortese filosofia critica. Non v’è qui più alcuna illusione che l’analitica e la logica dialettiche possano riempirsi di contenuti di verità. V’è tuttavia, in questa recentissima e sofisticata operazione sulla dialettica hegeliana, a speranza che il negativo logico possa almeno continuare a rappresentare un’allusione, un’allegoria dell’essere e fondare perciò qualche formale orizzonte di significatività. Funzione ontologica del negativo, del differente, nella logica? No, non è possibile.

Se ho citato questi volumi, non è perché occasionalmente (non potendo, in questo periodo, frequentare se non episodicamente le biblioteche) me li sono trovati fra le mani. L’occasione non ne toglie il valore di indice generale. Ebbene, qui, emblematicamente, il sogno dell’unificazione logica del sapere e l’hegeliana Darstellung di una logica dell’essere si mostrano e sono offerti come radice dell’errore. In verità, dopo la rivoluzione, non è l’essere che si è appropriato della logica bensì è la logica che si è appropriata dell’essere. Con Hegel la logica è divenuta la matrice dell’ideologia ed un’analitica stringente si è opposta all’estetica trascendentale della libertà. Lo spazio dell’estetica trascendentale è stato ridotto, nel migliore dei casi, a misure fenomenologiche. Il rapporto costitutivo fra estetica e dialettica trascendentale dell’immaginazione vera è stato costrittivamente attraversato da un’analitica, da un’epistemologia, asfissianti ed onnicomprensive. Il più antico programma dell’idealismo tedesco è divenuto il suo rovescio - e noi viviamo questa tragedia.

Quando la filosofia contemporanea avverte questo esito diviene impotente. La caduta della dialettica, nella sua figura hegeliana, sembra comportare la rovina di ogni possibilità di costruzione.

Così, nei momento nel quale la tragedia della ragione dialettica diviene storica e la ragione meccanica raggiunge l’apice della sua espressione determinata, realizzando completamente, fra Auschwitz e Hiroshima, il rovescio dell’antico programma di libertà dell’idealismo tedesco ed insieme mostrando l’efficacia distruttiva del decorso storico della dialettica, la filosofia si sente sull’orlo estremo dell’essere. Un orlo di distruzione, ove soffia e risucchia il vento del vuoto, - e l’orrore è moltiplicato.

La favola della filosofia non può tuttavia aver fine. Questo nostro

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essere sull’orlo dell’essere ci rivela non solo la disperata effettualità della crisi del sistema del valore - ci pone anche di fronte alla genealogia di questa crisi e ci colloca, attraverso questa scoperta, sul solo terreno sul quale l’intelligenza riflette su se stessa. Viviamo un’età barocca: non la meraviglia o l’ammirazione ma il terrore sono alla base del risveglio alla filosofia. L’orrore della distruzione ci incolla al corpo, alla sensibilità, alla vita - alla necessità di una riflessione intelligente. L’orlo dell’essere ci obbliga al cuore dell’essere, ci stringe su quel punto sul quale una estetica della libertà può nuovamente coniugarsi con una dialettica dell’immaginazione produttiva.

<< Un’etica >>.

Con forza di anticipazione e capacità di raccogliere l’anomalia di una straordinaria condizione storica, Spinoza ci ha indicato questo cammino. Di nuovo qui posso ripercorrere la mia esperienza filosofica e i miei scritti degli anni settanta - una seconda fase del mio pensiero. Ora, fino a quando non ho incontrato Spinoza (13), se mi era chiara la necessità di rompere la subordinazione della volontà di valorizzazione dei soggetti alla meccanica della ragione analitica, non me è stato mai chiaro che a questo scopo andava interrotto il circolo vizioso delle omologie analitiche che continuamente si determinavano quando dall’esperienza soggettiva si passava all’oggettiva - e viceversa. Nel migliore dei casi, quando si scioglieva, lo spirito di sistema liberava (in polemica con l’analitica) volontà anarchica; viceversa, lo spirito anarchico resolve, alla maniera di un surrealista progetto, alla volontà di sistema. Nello schema filosofico tradizionale che subivo, la critica indicava la trascendenza del valore anziché assumere la possibilità radicale di sviluppare la potenza ontologica del soggetto. In tutti i miei scritti degli anni settanta (14), che apparivano come scritti politici ma erano essenzialmente scritti di metodo, mi sono mosso in questo circolo vizioso. E’ il circolo vizioso di un atteggiamento dialettico che rifiutavo ma non riuscivo ad evitare - anche nei momenti di più fervida rivendicazione del vero materialismo marxiano (15). Dall’autovalorizzazione dei soggetti all’autorganizzazione del partito, si diceva, dalla ricchezza cosciente della spontaneità all’autodeterminazione dei soggetti, al politico - e poi al comunismo (16). E’ sbagliato. Dentro questa trafila l’autodeterminazione diviene trascendenza. E’ trasfigurazione

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analitica della pratica del valore, è surretizio recupero della mistificazione trascendentale della ragione meccanica. No, l’autodeterminazione viene prima, è il preambolo. L’etica nasce dalla rivoluzione come preambolo. Il comunismo viene prima, come pratica.

Non solo Schelling, Hölderlin, Hegel hanno conosciuto la rivoluzione come preambolo: anche noi abbiamo piantato i nostri alberi della libertà. Fra il 1917 e il 1968 lo sviluppo pauroso dell’analitica della ragione ha avuto come corrispettivi il gioioso liberarsi di un’estetica della libertà ed un’immaginazione vera. Di nuovo una mitologia della ragione si è presentata come possibilità filosofica. Di nuovo, di contro, contemporanei, il tradimento, il pentimento e l’analitico sistema del terrore hanno schiacciato questa possibilità. Ma questo nostro destino è troppo feroce e le sue componenti troppo esasperate perché noi possiamo ancora illuderci. L’analitica ha immediatamente il volto della morte. A queste condizioni, l’estetica della libertà ha l’immediata robustezza ontologica dell’esistenza del corpo. Una nuova mitologia della ragione, un’ontologia dell’etica, della sensibilità, del corpo: non è possibile spostarle. Sono condizioni di esistenza.

Troppi << nuovi credenti >> (come li chiamava Leopardi), troppe anime pallide, ricercano nella trascendenza la via d’uscita da questa tragedia nell’essere. << Asylum ignorantiae! >>. No, davvero questa forma dell’andar oltre il terrore analitico ha la figura del salto mortale. Già nella Germania degli anni Venti e Trenta, in questa comunque straordinaria vicenda culturale, questa via non significò evitare la catastrofe ma annunciarla. Un pensiero autodistruttivo. L’<< angelus novus >> non intendeva la rivoluzione come preambolo bensì come soluzione delle aporie analitiche della ragione. Non come condizione e Umwelt bensì come sviluppo ed Aufhebung. Il passaggio dall’estetica alla dialettica dell’immaginazione fingeva così 1 superamento dell’analitica, in realtà ne subiva il dominio e di conseguenza scartava l’estetica come fondazione. L’Angelus novus non svolgeva l’estetica in liberazione ma la traduceva piuttosto nell’idea della redenzione. Erlösung - ci dice quello stesso Rosenzweig (17) che pure ci aveva restituito il Systemprogramm, quando, alcuni anni più tardi, non resiste alla potenza della morte che vede prendersi i suoi compagni nelle trincee della Bielorussia.


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Tutu noi abbiamo visto in questi anni la morte sedersi alla nostra tavola. Eppure non è questa, di Rosenzweig, la via per vincere la morte. Rosenzweig ripete il terrore analitico nel soffrirne i disperati effetti. Come invece rompere l’implacabile circolarità analitica e dare significato all’esistenza, a fronte del senso nullificante che in essa l’analitica mette in moto? Come proporre, nelle maglie del capitalismo maturo e della sua analitica, la rivendicazione di una nuova dialettica trascendentale dell’illusione vera? Come sviluppare il preambolo rivoluzionario di un’estetica della libertà verso la costituzione del reale? Rispondere a questi interrogativi, operare in questo senso, è oggi ricostruire un’etica.

La rivoluzione come preambolo, il senso della grande trasformazione in corso e della tragedia incombente - come contenuto elementare dell’estetica: che cosa significa questo? Se, sull’orlo dell’essere, tutto può essere distrutto, tutto può essere anche costruito: il contenuto dell’estetica è un paradosso metafisico trasformato, attraverso le dimensioni delle possibilità, in paradosso pratico. L’essere è, il non-essere non è: recita l’antico adagio. Ma oggi l’essere può non essere. La possibilità della non esistenza, come competenza del soggetto, è una nuova attribuzione dell’analitica. Ma questo essere, divenuto assoluta contingenza, è possibilità di nuovo essere. La costituzione soggettiva filtra la possibilità di costituzione ontologica e radica [sic] quest’ultima nell’estetica trascendentale. L’analitica ci ha restituito il mondo come assoluta contingenza: con ciò si fonda la radicale possibilità dell’innovazione alternativa. Il contenuto assoluto della verità, posto dall’analitica come trascendenza sull’estetica, risorge invece dal basso - non è una richiesta di altro e d’assoluto bensì un altro e un assoluto che vivono prima.

Un’etica, dunque, una costituzione della libertà. Il cammino che sale dall’immediatezza estetica della rivoluzione già data, posta come preambolo, su, fino alla dialettica dell’immaginazione vera - è questo il cammino che dobbiamo percorrere attraverso etica e costituzione, costituendo un’etica. Imponendo all’ontologia un’etica. Rovesciando così il processo che ci ha sempre portati fuori dalle dimensioni etiche dell’essere trasformato e ha sottoposto questo al dominio dell’analitica. Non può più essere concesso che la logica sia la matrice dell’ontologia e che l’etica si trovi di conseguenza relegata sull’orizzonte della


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trascendenza, gioia delle anime belle e preda del cinismo.

Ancora dal Systemprogramm << Nel medesimo tempo noi sentiamo sovente dire che le masse hanno bisogno di una religione sensibile. Non solamente le grandi masse, anche il filosofo ne ha bisogno. Monoteismo della ragione e del cuore, politeismo dell immaginazione e dell’arte, questo è ciò di cui noi abbiamo bisogno! Parlerò quindi d’un’idea che, per quanto ne so, mai è venuta alto spirito di nessuno, non ancora almeno - noi dobbiamo avere una nuova mitologia, ma questa mitologia deve stare al servizio delle idee - essa deve divenire una mitologia della ragione >>.

Commentiamo questo brano. Oggi, l’unificazione logica dell’umanità ci si propone nuovamente con conseguenze disastrose. L’insignificanza dei linguaggi e la guerra sono divenuti l’orizzonte dell’esistere: hobbesianamente solo il dominio ci propone possibilità di esistenza. Quale è la nostra miseria! Le differenze fra gli uomini sono organizzate sulla gerarchia del dominio. La grande macchina della rappresentazione logica del reale si è formalizzata e toglie la vita agli uomini, proiettandola nell’insignificanza e spingendola sull’orlo della distruzione assoluta (18). Come distruggere questa ristrutturazione analitica della ragione e proporre invece alla ragione un altro, diverso, umano orizzonte - una mitologia della ragione, un’estetica dell’immediatezza ragionevole?

Ho percorso l’orizzonte della guerra armato di una mitologia della ragione, di una religione sensibile, perciò di quell’orrore non ho subito il dominio. Ora è per me il momento di riaprire, attraverso la più radicale critica dell’analitica, il canale di scorrimento fra la resistenza all’orrore e l’immaginazione sensibile della libertà. Entro in una terza fase del mio lavoro filosofico (19).

Il misticismo di Wittgenstein e l’ascetismo dell’ultimo Husserl ci hanno mostrato il grande quadro dell’essere ormai spostato sulla linea della più assoluta Sinnlosigkeit del significante. Il post-moderno e le ideologie sistemiche hanno accolto e sviluppato in maniera apologetica quest’apprensione del mondo - senza il dolore che, in casi simili, è proprio della grande filosofia. Questo morto mondo può essere rotto dal lavoro vivo, dall’immaginazione vera del soggetto, da un’etica ragionevole dell’immediatezza. La possibilità del mito è interna alla contingenza feroce

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di questo mondo, al suo affacciarsi sull’orlo della distruzione. Solo l’etica può rappresentare la possibilità di una ontologia, di una filosofia dell’essere vero.

Un’etica? Sì. Una politica.


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NOTE INTRODUZIONE

1) Mythologie der Vernunft. Hegels << ältestes >> Systemprogramm des deutschen ldealismus. hrsg. von C Jamme und H Schneider. Suhrkamp, Frankfurt, 1984.

2) Antonio Negri, Stato e diritto nel giovane Hegel. Studio sulla genesi illuministica della filosofia giuridica e politica di Hegel, Padova, CEDAM, 1958, pp. 288.

3) Antonio Negri, Saggi sullo storicismo tedesco. Dilthey e Meinecke, Feltrinelli, Milano, 1959, pp. 303.

4) Cfr comunque anche la traduzione di P Naville in Hölderlin, Oeuvres, Gallimard, Paris, 1967, pp. 1157-1158.

5) Antonio Negri? Alle origini del formalismo giuridico. Studio sul problema della forma in Kant e nei giuristi kantiani fra il 1789 e il 1802, Padova, CEDAM, 1962, pp. 400.

6) G W F Hegel, Scritti di filosofia del diritto (1802-1803), traduzione e introduzione di Antonio Negri, Laterza, Bari, 1962.

7) Antonio Negri, La forma Stato. Per la critica dell’economia politica della costituzione, Feltrinelli, Milano, 1977, pp. 345; Scienze politiche 1 (Stato e politica), << Enciclopedia Feltrinelli-Fischer >> n. 27, a cura di Antonio Negri, Feltrinelli, Milano, 1970.

8) Antonio Negri, Descartes politico o della ragionevole ideologia, Feltrinelli, Milano, 1970, pp. 212,

9) Antonio Negri, Studi su Max Weber (1956-1965), in << Annuario bibliografico di filosofia del diritto >>, Giuffrè, Milano, 1967; Antonio Negri, La filosofia tedesca del Novecento, in << Storia della filosofia >>, diretta da Mario Dal Prà. Volume X, << La filosofia contemporanea: il Novecento >>, Vallardi, Milano, 1978.

10) Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Einaudi, Torino, 1982.

11) Martin Heidegger, La << Phénoménologie de l’esprit >> de Hegel, Gallimard, Paris, 1984.

12) Michael Theunissen, Sein und Schein. Die kritisce Funktion der hegelschen Logik, Suhrkamp, Frankfurt, 1980.

13) Antonio Negri, L’anomalia selvaggia. Potenza e potere in Baruch Spinoza, Feltrinelli, Milano, 1981, pp. 300.

14) Antonio Negri, Operai e Stato, Lotte operaie e riforma dello Stato capitalistico tra Rivoluzione d’Ottobre e New Deal, Feltrinelli, Milano, 1972; Antonio Negri, Crisi dello Stato piano, Feltrinelli, Milano, 1974; Antonio Negri, Crisi e organizzazione operaia, Feltrinelli, Milano, 1974; Antonio Negri, Proletari e Stato, Feltrinelli, Milano, 1976; A Negri, La fabbrica della strategia. 33 lezioni

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su Lenin, Area ed, Milano, 1977, pp. 224; A Negri, Il dominio e il sabotaggio. Sul metodo marxista della trasformazione sociale, Feltrinelli, Milano, 1978; A Negri, Dall’operaio massa all’operaio sociale, Multhipla ed, Milano, 1979, pp. 176.

15) Antonio Negri, Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Feltrinelli, Milano, 1979.

16) Antonio Negri, Il comunismo e la guerra, Feltrinelli, Milano, 1980.

17) Franz Rosenzweig, L’Etoile de la Rédemption, Le Seuil, Paris, 1981.

18) Antonio Negri, Macchina-tempo. Rompicapi, liberazione, costituzione, Feltrinelli, Milano, 1982.

19) Antonio Negri, Pipe-line, Lettere da Rebibbia, Einaudi, Torino, 1983.

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Capitolo Primo.
<< No future >>, ossia sull’essenza etica
dell’epistemologia.

1. L’indifferenza dell’universo della comunicazione.

Ci sono tre elementi che caratterizzano l’orizzonte metafisico della nostra epoca. Il primo dato è che viviamo in un mondo nel quale solo l’immagine traduce l’esperienza. Ogni autonomo momento di produzione, ogni rapporto dal senso della proposizione al significato reale dell’evento, ogni trascendimento del contesto della comunicazione appaiono impossibili. La logica si muove su questo terreno: perciò non riesce mai a farsi epistemologia, senso e significato del nostro linguaggio sono irrimediabilmente separati. A partire da questa prima constatazione vengono molte conseguenze: in primo luogo sembra chiaro che di questa situazione linguistica non possiamo neppure parlare - ci siamo dentro, e qualsiasi tentativo di cogliere un riferimento reale non è altro che un trascendimento. Questa logica è autoreferenziale - meglio, è tautologica. Certo, il complesso delle proposizioni che descrivono la vita non può immediatamente essere riportato alla tautologia, - per la semplice ragione che la tautologia non può ricoprire la complessità. Ma è anche vero che la tautologia è il minimo comune denominatore di questo universo, che un’immaginaria riduzione ad elementi semplici degli insiemi linguistici non potrebbe che mostrare la tautologia come chiave di tutto l’universo logico. Ma allora come funziona (perché malgrado tutto funziona) questo nostro universo logico, questa nostra vita organizzata da giudizi e da inferenze logiche?

Vi è un secondo elemento che è assolutamente fondamentale ritenere, ed è che questo universo linguistico, logico, che


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non possiede verità ma semplicemente movimento, - dunque, questo universo logico, è anche un universo produttivo. Esso comprende, nel momento stesso nel quale fissa delle relazioni di comunicazione, parametri sociali, strutture e figure, socialmente efficaci a rendere valido il linguaggio. Si tratta di veri e propri rapporti di produzione: il linguaggio infatti traduce nella sua propria struttura quella gerarchia che è alla alla riproduzione della società. Dentro questa circolazione permanente di flussi linguistici, di immagini che precedono il reale, di un reale che è incarnato dalla forza della comunicazione, la produzione del mondo si ripete in maniera continua. E’ qui chiaro lo sviluppo dell’intuizione marxiana del completarsi del capitalismo nella fase della sussunzione reale. Vale a dire che ogni elemento dello sviluppo sociale è qui compreso ormai nella totalità della circolazione delle merci: questa comprensione rende evidentemente produttiva tutta la società, ma nello stesso momento in cui opera in questo senso, toglie la specificità del produrre, la oblitera espandendola in ogni direzione, la rende eguale a tutto ciò che esiste. Il paradosso è solo formale: sostanzialmente il suo significato è che tutto ciò che esiste è capitalisticamente produttivo, - vale a dire non semplicemente produttivo, ma produttivo dentro una determinata relazione di sfruttamento.

La sfera linguistica nasconde la totalità del processo produttivo, meglio, l’assume per distruggerne le caratteristiche antagonistiche. E’ un fatto che quando tutto è produttivo non può esistere un criterio assoluto di misura - la misura cade, e con ciò cade anche ogni rapporto reale tra sfera della comunicazione e sfera della produzione. Ma se la sfera della produzione é completamente implicita nella sfera della comunicazione - come articolare il rapporto, come descriverlo, come dominarlo? Si conosce la risposta: è la moneta: quella merce universale che deve valere per queste funzioni. Ma è ben vero che per la moneta può essere detto esattamente quello che si è detto più in generale per il linguaggio. Con la moneta chiamo gli oggetti in maniera diversa, do loro un nome che è un prezzo - ma tutto ciò subisce la stessa circolazione insensata che è propria del linguaggio ed ormai nessuno può dire della moneta che i suoi nomi corrispondano, meglio fissino un reale. Forse è solo la forza che discrimina e rende ricchi: antica banalità, al di là della quale resta la necessità


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di comprendere.

Siamo dunque dentro un universo di sensi molteplici, ma sempre circolanti e tendenti all’unità linguistica (ed alla nullità epistemologica) della tautologia. Quest’universo registra la crisi della comprensione del rapporto fra senso e significato, fra nome e cosa, tra società e produzione. Ma questa crisi è dentro lo stesso orizzonte, lo stesso livello della circolazione. Ne viene, con la caduta di ogni parametro di confronto, di misura, un regno di indifferenza. L’indifferenza è la tendenza. Quanto più questo mondo si sviluppa, quanto più si matura e si perfeziona, tanto più esso diviene indifferente. Noi immaginiamo per questo mondo un’intercomunicabilità totale - ma laddove non esiste criterio di misura, riferimento oggettivo, ivi la comunicazione è caotica - meglio, è appunto indifferente. Ogni determinazione viene meno, ogni capacità di riferimento reale è annullata.

Io ritengo che questi siano il termine e l’esaurirsi necessari del pensiero occidentale, da quando e perché esso ha scelto di privilegiare l’orizzonte del Logos, cioè l’orizzonte del comando, e di assumerlo a proprio esclusivo fondamento. Noi abbiamo bisogno di liberarci da tutto questo, da questo sviluppo del pensiero che non è stato altro che una trascrizione mistificata dello sviluppo del rapporti di sfruttamento. La ragione ha costruito la sua analitica, dentro la quale lo studio dell’esperienza ed il riferimento al reale sono stati di volta in volta depurati o distrutti. La logica ha finto di eliminare ogni finzione estranea alla specificità del suo proprio cammino. Ma con ciò si è isolata dalla vita - meglio, è servita a mistificare il senso della vita. Qui ora ci ritroviamo dinnanzi ad una spaventosa crisi di questo cammino. L’analitica trascendentale della vita ha fatto cilecca, è entrata in crisi, talora s’è fatta prendere da eccessi paranoici. Come porre, dentro le condizioni di questa crisi - non al di fuori, non al di là di questa crisi ma, lo ripeto, dentro questa crisi - come porre le condizioni di una riconquista dell’esperienza? E’ inutile qui ricordare come Kant abbia posto con forza questo medesimo problema, per la prima volta nel corso dello sviluppo del pensiero occidentale: quali sono le condizioni di pensabilità dell’esistente, qual’è la forma nella quale il mondo della vita può essere percepito? E’ inutile anche ricordare che in Kant erano presenti, come sempre nella grandezza degli inizi, le varie risposte che a questo interrogativo


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potevano essere date ma è certamente vero che la via fondamentale percorsa, in Kant e nei suoi seguaci, fu quella dell’<< analitica trascendentale >>. L’analitica si pose come schermo forte e determinante fra << estetica >> e << dialettica trascendentali >> - mentre la prima fu man mano ridotta a mostrarsi non come esperienza irriducibile ma come contenuto dell’analitica, la dialettica trascendentale venne essa stessa costretta a progettarsi sugli schemi dell’analitica. Oggi abbiamo il risultato di questo processo. Un risultato che, in una specie di parallelismo, registra l’equivalenza del processo reale: una sfera analitica della conoscenza che si è fatta sfera astratta della comunicazione e, in parallelo, un modo produttivo divenuto sempre più comunicativo e informativo, ma soprattutto autoreferenziale e tautologico. In ogni caso è indifferente il riferimento al reale: l’estetica trascendentale è negata.

Un terzo elemento è caratteristico della nostra percezione del mondo, oltre a quelli già detti, della percezione comunicativa e della consapevolezza della sussunzione produttiva. Questo terzo elemento è proprio dell’esperienza che conduciamo dentro questi livelli critici. Vale a dire che se l’indifferenza è la caratteristica della situazione, se la tautologia è la chiave di volta del sistema comunicativo, pure tutto questo non può funzionare quando emergono su questi terreni i problemi della scelta e della decisione etiche. Vale a dire che lo posso ben muovermi nella pura circolarità delle esperienze che mi sono proposte fino a quando non mi trovo dinnanzi alla necessità della scelta, vale a dire alla necessità di mettere in atto le determinazioni del mio volere. Non è, questa, la ripresa di una nota e prometeica rivendicazione dell’esistenza - stavo dicendo rivendicazione << esistenziale >> dell’esistenza! Non lo è perché qui questa contraddizione non è una rottura, non è un << atto puro >> e cioè un’incisione che riqualifica e dà senso all’indifferenza del contesto analitico questa percezione è solo un arricchimento del quadro fin qui descritto. Vale a dire che l’insensatezza del rapporto fra logica tautologica, comunicazione circolare e contesto produttivo rivela, con l’indifferenza del rapporto, la precarietà del rapporto stesso. Questo emergere della volontà che chiede senso per l’esistenza, non concede, né forma il senso dell’esistenza. La volontà non è creativa - si trova messa in scacco a fronte dell’indifferenza dei


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significati. Ma una cosa essa rivela, ed è che la componente etica, pratica, materialmente determinata, corre attraverso l’intero quadro dell’analisi e in nessun momento è possibile da questa sganciarla. La società della comunicazione è dunque percorsa da un insieme di rapporti di volontà che, se sono impliciti nella relazione che essa intrattiene con la produzione, divengono espliciti quando l’esperienza pratica individuale viene assunta entro l’analisi. Se di nuovo rileggiamo, anche a questo proposito, il vecchio Marx, di nuovo troviamo un inizio di risposta - ed è, questo inizio, legato alla definizione dell’esperienza stessa. Vale a dire che, come è largamente chiarito dalle << Glosse su Feuerbach >>, il tessuto dell’esperienza non è logico ma trasformativo. E’ quest’affermazione quella che qualifica il materialismo dell’epoca moderna, su da Machiavelli, attraverso Spinoza, fino appunto a Marx e ai grandi movimenti di trasformazione della società. Vale a dire che il disorientamento che l’universo della comunicazione, portato a questo piano di indifferenza, determina in noi, non riguarda semplicemente i momenti logici dell’esperienza né quelli produttivi, ma coinvolge la complessità della figura umana. Ed è evidente che non possa che essere così: poiché quella mancanza di misura, quella mancanza di criterio che creano il disorientamento, sono in effetti null’altro che indici della contingenza del rapporto nella sua complessità, e cioè dell’esistenza intera. La tautologia logica è mancanza di senso della vita. La mancanza di senso della vita è impossibilità di recuperare un qualsiasi criterio di scelta, di direzione, di soddisfazione etica. Il tessuto etico corre attraverso, e ricopre, l’intero mondo della comunicazione. In Marx questa percezione della sostanziale eticità dell’esperienza del mondo è continuamente presente. La caduta delle funzioni della << teoria/misura del valore >> nella fase della sussunzione reale non comporta la caduta delle caratterizzazioni di valore che l’intera esperienza umana, comunicativa come produttiva, possiede.

Siamo così al centro della definizione di questo mondo dell’esperienza. In esso si incrociano a globalità della produzione, l’insensatezza della comunicazione e l’assoluta contingenza dell’agire. E’ questo cammino una specie di crescere delle condizioni dentro le quali il nostro problema, e cioè il problema del senso dell’esperienza, viene ponendosi. La mia tesi è che non sia possibile


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ricostruire un’epistemologia (nel senso proprio di teoria della verità) se non fondandola sul carattere etico dell’universo dell’esperienza. Le condizioni di un’estetica trascendentale dell’esperienza, date le dimensioni del mondo della vita che conosciamo, debbono dunque essere impiantate sul tessuto etico. Non certo perché esse appaiono come elementi imprescindibili dell’esperienza stessa (soprattutto se essa è riguardata dal punto di vista individuale), ma perché è sul tessuto etico che la contingenza del mondo si rivela tanto più forte quanto più le sue caratteristiche reali e la sua sussunzione nella produzione si siano realizzate. Lo vedremo meglio avanzando nella ricerca, ma fin d’ora possiamo dire che la contingenza etica ha, rispetto allo sviluppo della nostra ricerca, la stessa importanza centrale che ha il dubbio logico nell’esperienza Cartesian dei primordi della rivoluzione capitalistica. Vale a dire che se l’insensatezza logica e la nullità epistemologica possono, come tali, nel mondo della comunicazione, sviluppare una funzione di mistificazione e perciò esistere, - il problema della contingenza del mondo etico, intesa in termini assoluti, e cioè come possibilità o meno dell’esistenza del mondo, bene, questo problema non può essere mistificato. Non è qui il problema religioso o moralistico dell’<< essere-per-la-morte >> che porta al centro dell’analisi: qui il problema è il fatto che la distruzione dell’essere è divenuta possibile nella misura stessa nella quale l’universo produttivo è stato sussunto nel capitale e l’universo linguistico è stato ridotto a comunicazione indifferente. Fra queste operazioni di portata storica esiste un nesso profondo, ed è a partire da esso che la contingenza generale dell’universo, questa indifferenza etica dell’universo, saltano in primo piano. La radicale contingenza dell’essere non è semplicemente possibilità di un punto catastrofico - è una tendenza, è un’essenza, è un fluire che ha la stessa estensione della costruttività umana dell’essere.

Tre elementi dunque, in questa crisi dell’epistemologia moderna, insieme cause ed effetti di questa. Tre elementi che si incrociano e che si nutrono a vicenda. Il problema sarà dunque quello di vedere quale sia il punto più debole di questa crisi e come sia possibile definire, oltre le condizioni di un’estetica trascendentale, di un’esperienza portata a questo livello di maturazione storica, la fondazione di un progetto epistemologico globale.


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O semplicemente se sia possibile muoversi in questa direzione.

2. Rompicapi dello spirito.

Se seguissimo una di quelle vie che si raccolgono nella grande categoria filosofica del << ritorno a Kant >>, giunti a questo punto della nostra indagine cercheremo comunque di forzare, dentro l’indifferenza nella quale si configura il mondo della vita, le sue dimensioni, i suoi orizzonti - cercheremo cioè di identificare limiti dell’indifferenza e di ricostruire le possibilità di un’analitica trascendentale. Si badi bene: il fatto di escludere una fondazione logica dell’epistemologia non toglie la possibilità di organizzare un’analitica critica della ragion pratica. Nel momento più importante dello sviluppo del neokantismo, Windelband e Rickert seguirono questa via contro la linea di esasperazione del formalismo della ragion pura, perseguita da Cohen e Natorp.

No, qui si tratta di escludere comunque un progetto analitico, foss’anche riguardoso della densità di caratterizzazioni etiche che il mondo della vita rivela.

D’altra parte è proprio quando si approfondisce l’orizzonte dell’estetica trascendentale, vale a dire il campo dell’esperienza, nel tentativo di produrre un orizzonte interno di mediazione e/o di costituzione - è proprio allora che il cammino dell’analitica si mostra impercorribile e che la ricerca si rivela prigioniera di una serie di rompicapi insolubili. Per rompicapo intendo un limite essenziale del linguaggio che uso, l’impossibilità di fondare il concetto che esprimo e l’imbroglio di ogni processo di verifica cui io possa sottoporre il rapporto linguaggio-concetto-realtà.

Ora, assumendo le caratteristiche del mondo della vita che abbiamo sottolineato, tentando per ipotesi di costruire un’analitica trascendentale a partire da quelle condizioni, mi trovo, davanti ad almeno tre rompicapi fondamentali. Di nuovo insisto: non si tratta semplicemente di singoli punti del ragionamento che emergono in forma contraddittoria bensì di contraddizioni irresolubili che partecipano dell’intero meccanismo concettuale che regge ogni tentativo di costruzione di un’analitica della ragione-logica


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logica o etica. Guardiamo questi rompicapi uno per uno.

Il primo rompicapo è quello che si può chiamare del comando o della misura. Esso può essere espresso in questi termini: quando mi trovo in un universo completamente sussunto, quando rapporti che si stendono fra soggetti-oggetti di questo universo, frazioni e produzioni, non posseggono misura possibile, allora è solo una sovradeterminazione quella che può rendere senso, e un qualche ordine, a questo universo. Ma, come abbiamo visto e come meglio vedremo andando avanti, se è vero che a mancanza di misura di questo mondo esprime la radicale contingenza di tutti gli elementi che lo compongono, se è vero che questa equivalenza dei soggetti contingenti si riferisce all’estremo apprezzamento dei limiti dell’essere, cioè alla scelta fra esistenza e non esistenza collettiva, è chiaro che la sovradeterminazione non potrà darsi in termini risolubili dentro un processo di verifica del senso logico (o etico) della proposizione, e quindi verso una determinazione di significati reali. La relazione di potere è qui dunque statica - allude e tende alla nullità.

Rivediamo il discorso da un altro punto di vista. Se l’orizzonte del mondo della vita è completamente lineare, se ogni sovradeterminazione risulterà perciò contraddittoria, può ben darsi che la relazione di potere possa essere definita in termini appunto relazionali. Vale a dire che, come fanno i matematici che tentano di definire la potenza naturale numerica come limite di serie equipollenti, anche il concetto di potere - cioè la misura e la discriminazione degli eventi sociali - potrebbe essere definito non come sovradeterminazione ma come limite geometrico di serie, volontà, atti formalmente equipollenti. Tale è ad esempio il meccanismo che conduce alla definizione della << Grundnorm >> nel pensiero di Hans Kelsen. Più che di sovradeterminazione si dovrebbe in questo caso allora parlare di << determinazione della determinazione >> - come di un processo cumulativo che costituisce man mano un referente decisivo. Ma anche questa ipotesi non regge il peso dell’assoluta contingenza. Certo, lo schema aperto che sta alla base di questa definizione, ci aiuta a comprendere la realtà del contesto etico nel quale ci muoviamo - ma esso non risolve il rompicapo né può rendere efficace un concetto di potere a questo livello. Così ci troviamo nell’assoluta impossibilità di definire cosa sia << l’uno >> sull’orizzonte etico e nel quadro


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della sussunzione. E’ evidente che questo imbroglio logico è profondo, tocca tutte le determinazioni del problema. E’ evidente che, riguardando il problema del comando dentro le prospettive della sussunzione reale, ci troviamo nell’impossibilità non solo di risolvere questo problema, ma addirittura di impostarlo.

Se il primo rompicapo riguarda il problema << dell’uno >>, ovvero il problema del potere, il secondo rompicapo cui ci troviamo confrontati riguarda il problema dell’<< altro >>, e cioè di tutto ciò che si oppone all’uno, della moltitudine che si oppone al potere. Ora, nella tradizionale teoria costituzionale, ed anche nella teoria economica, a differenza è che, come per i soggetti costituenti nella teoria politica, il concetto di moltitudine è rotto — nella rozza solidità dell’insieme che rappresenta - e i suoi materiali sono condotti a medietà. Per medietà s’intende una dimensione di valore che unifica in termini equipollenti le molte unità che costituiscono << l’ altro >> (che può essere chiamato il popolo, la classe, la forza-lavoro… ). La forzatura che viene operata per ridurre la molteplicità alla medietà, l’importanza che in questo caso assume il concetto di valore (sia esso produttivo, etico o politico) hanno indubbiamente un ruolo fondamentale nella riqualificazione dell’orizzonte del mondo della vita. Non perciò tuttavia questo metodo risulta conclusivo. Infatti anche in questo caso ci ritrova di fronte ad un imbroglio insolubile: la mediazione è qui imposta nella forma di una sorta di sottodeterminazione del valore. Ma, non diversamente da quanto avviene nella sovradeterminazione del potere, così questa sottodeterminazione del valore si scontra radicalmente con la contingenza dei soggetti. E la relazione non ha in tal modo la possibilità di riportare il senso al significato.

Come nel caso del primo rompicapo, anche in questo caso abbiamo una forma subordinata di approccio al problema: neppure essa conduce, tuttavia, alla soluzione del rompicapo medietà / moltitudine. In che cosa consiste questa seconda redazione del problema? Consiste nel porre il rapporto fra le singole soggettività non in termini di mediazione (di sottodeterminazione) bensì in termini di composizione (di interdeterminazione). E chiaro qual’è il vantaggio di questa posizione: essa sembra costruire il soggetto come cumulo di determinazioni specifiche,


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l’analisi dei soggetti e il processo del loro unificarsi son visti come un processo cumulativo di comportamenti, azioni, bisogni, tradizioni... insomma come un insieme storico di determinazioni. E’ in questo caso estremamente importante sottolineare l’utilità di questa impostazione: sulla sua base una prassi ricompositiva è spesso data e molti dei valori di una cultura democratica possono fondarsi su un apprezzamento siffatto, rispettoso delle molteplicità come singoli. Ma, ciò detto, il rompicapo resta. Medietà e moltitudine, anche in questo caso, si oppongono irriducibilmente e la costituzione pratica di una dimensione comune, di un tempo comune, quando non siano pura utopia, divengono mere illusioni.

Se ora, prima di trascorrere all’analisi del terzo rompicapo, guardiamo quanto residua dalla definizione dei primi due, sembra che alcuni risultati importanti siano stati definiti. Non solo quelli già segnalati (e cioè, sia attraverso il primo che il secondo rompicapo, l’approfondimento della figura lineare dell’orizzonte del mondo della vita) ma soprattutto la critica di ogni caratteristica strutturalistica nella concezione del valore. Intendo dire che la teoria del valore, la si assuma in maniera oggettivistica, oppure in maniera soggettivistica, la si prenda dentro la prospettiva del comando oppure la si ricostruisca in termini di composizione - comunque rappresenta una struttura rigida che impedisce un processo di pensiero che rompe con l’analitica trascendentale. Per dirla altrimenti: la teoria del valore, nelle sue diverse dimensioni e nelle sue differenti applicazioni, è la forma più alla nella quale si presenti l’analitica trascendentale. Ed è appunto da questo punto di vista, e dentro l’apprezzamento di questi rompicapi, che noi cogliamo l’inadeguatezza di tutti i concetti che comunque alle teorie del valore si riferiscono (e, fra questi, quello di dittatura e di democrazia, quello di sviluppo e di crisi) - inadeguatezza di tutti questi concetti ad esprimere la radicale contingenza dell’essere.

Il terzo rompicapo sta nel coniugare il rompicapo primo (o del comando) con il rompicapo secondo (o vero della costituzione). Questo rompicapo può dirsi [dirci] rompicapo della rivoluzione. Rivoluzione è la contraddizione che si apre fra costituzione del comando e libertà della moltitudine. La soluzione di questo rompicapo si è voluta spesso costruire sulla base dell’apprezzamento del dinamismo particolare della rivoluzione. La rivoluzione, infatti,


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da un lato distrugge e comunque destruttura, dall’altro ricostruisce e comunque struttura: si è cercato allora un soggetto dinamico di questo processo, un partito, un’avanguardia, un principe, una classe rivoluzionaria... comunque un soggetto, al quale riferire la continuità dei passaggi del processo, quasi questi ultimi rappresentassero delle espressioni del suo spirito. E’ chiaro che questa definizione è completamente ipostatica. Se il primo paradosso e il secondo sono insolubili, tanto più lo è la coniugazione dei due. In questo caso, poi, troppo spesso la crisi dei paradigmi ideali si è mostrata come tragedia storica. (Si tenga presente che anche in questo caso esiste un approccio subordinato alla soluzione del rompicapo - approccio che distende sull’orizzonte del mondo della vita, in termini storici ed empirici, la descrizione dei processi eversivi. Questa seconda figura, o forma attenuata della teoria della rivoluzione. mostra il processo come << dualismo dei poteri >> e cerca di definire la crescita di un soggetto come prodotto di una regola puramente antagonista. E’ evidente che, anche in questo caso, ci si trova di fronte ad una soluzione che è del tutto inadeguata: in effetti, da questo punto di vista, dentro la rigidità della relazione, non è tanto l’antagonismo che regola la crescita del potere rivoluzionario bensì quest’ultima è comandata da una sorta di ricalco e di riflesso negativo del potere avverso. Il potere rivoluzionario in questo caso finisce per essere complementare, negativamente complementare, rispetto al potere sovrano, e la libertà del suo sviluppo è solo apparente).

Ora, a me sembra che ogniqualvolta, a partire dall’esperienza, si tenta di risalire e di definire delle categorie analitiche che strutturino l’andar oltre il livello empirico ed i significati immediati del mondo della vita, - bene, in ognuno di questi casi, si resta prigionieri nella rete dei rompicapi. Questo non significa che il livello dell’esperienza non debba essere superato, questo non significa che i grandi fenomeni della comunità umana, della sua organizzazione, della sua rivoluzione, non debbano essere presi in conto anche secondo le leggi generali che a questi universi presiedono. Quello che i rompicapi ci rivelano, non conduce all’inesistenza dei fenomeni, mostra bensì l’impossibilità di una loro spiegazione dal punto di vista della ragion pura. E non solo di astratta e impotente spiegazione si tratta: quando ci si muove sulla base dell’egemonia e dell’esclusività del Logos, si perviene


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piuttosto ad una serie di perversioni pratiche - ad una coniugazione e moltiplicazione, cioè, dello sgorbio teorico con la crudeltà etica. In questa forma, il primo dei rompicapi è il problema del giacobinismo, il secondo dei rompicapi è la mistificazione del riformismo, il terzo rompicapo rappresenta il paradosso del cinismo politico, ovvero del machiavellismo.

3. Terrore e contingenza.

Per contingenza intendo il fatto che l’essere possa essere e/o possa non essere - effettivamente. Ovvero l’essere nella sua totalità. Il pensiero classico, nel considerare la contingenza, non l’ha mai strappata al particolare. Le due coppie, universale e particolare, necessario e contingente, stabilivano fra loro un rapporto univoco. Il necessario con l’universale, il contingente con il particolare. Qui noi viviamo in una situazione nella quale per a prima volta l’essere intero può essere distrutto. L’universalità dell’essere può praticamente essere messa in dubbio. L’essere può essere distrutto.

Se ora, a partire da questa prima immediata constatazione, ritorniamo a quanto detto nei primi approcci di questo lavoro, possiamo cominciare a meglio comprendere la specificità della condizione metafisica nella quale siamo inseriti. Vale a dire che il massimo grado di astrazione dell’essere che abbiamo registrato, e la sua indeterminatezza, si colorano qui di una determinazione pratica che ne sconvolge interamente la definizione. Dal quadro generale, astratto, indeterminato, indifferente, non può uscire una determinazione logica: esce solo una determinazione etica. Perché quel quadro è appunto contingente, e la contingenza è in questo caso vera e propria precarietà dell’essere, condizione di negatività che in generale ed individualmente subiamo. Un tempo si diceva che l’essere che la sua compiutezza che la sua fatticità non potevano essere disfatte. L’essere insomma era il fondo stabile della nostra esistenza e tutto all’essere poteva ritornare, così come dall’essere si era staccato. Ma ora l’essere può essere disfatto. Questo disfacimento non è una legge fisica ma una possibilità storica, - può essere la conseguenza di un atto. L’essere può essere distrutto da un soggetto: non questa o quella


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porzione dell’essere, ma l’essere intero, il mondo, il mondo della vita. Viviamo l’indifferenza e la massima astrazione dell’essere, ma improvvisamente, come nella luce di un lampo, intendiamo che quest’enormità dell’essere nel quale il nostro spirito si confonde, può essere volontariamente distrutto. L’essere rivela dunque una natura etica: esso, per esistere, è sottoposto alla volontà, alla soggettività, all’etica.

Con ciò siamo davanti ad un’inversione epocale del senso umano della vita. E chiaro che, se ci poniamo il problema di una analitica del conoscere e della sua crisi, non possiamo più porcelo nei termini di una epistemologia tradizionale. Poiché infatti l’oggetto stesso del nostro rapporto conoscitivo può scomparire e comunque è sottoposto ad una congiuntura radicale che ne impedisce un apprezzamento statico. Ogni apprensione del reale non può dunque, in questo momento, che porsi su quel punto dove la volontà e la conoscenza pratica percepiscono la possibilità dell’essere di essere e di non essere, di essere disfatto, ma anche e soprattutto di poter essere ricostruito. Ma di questo più avanti.

Torniamo al filo del nostro discorso. Abbiamo inizialmente osservato la generale indifferenza del quadro ontologico nel quale siamo inseriti. Abbiamo poi identificato alcuni grossi rompicapi, che impediscono ogni nostra logica, in termini tradizionali, da quell’indifferenza. Il problema della determinazione, il problema scelta, il destino del conoscere filosofico, sono in dubbio dentro quella situazione. Ora, noi avvertiamo che la massima astrazione dell’essere è la sua totale, radicale, definitiva, resa alla contingenza: con ciò noi comprendiamo l’essere come essere etico. Ma quando raggiungiamo questa coscienza, noi la raggiungiamo dentro le articolazioni dei rompicapi analizzati. Se infatti logicamente le alternative dell’uno e dei molti, della medietà e della moltitudine, della potenza e del potere, non riescono ad essere logicamente superate, pure esse per prime alludono ad un contesto etico nel quale ogni processo fenomenologico si conclude: sicché la scoperta della contingenza radicale è il coronamento di quelle prime annotazioni e il complemento formale del loro presentarsi al nostro spirito.

Ma la scoperta della contingenza non è semplicemente una nuova chiave per riuscire ad affermare che il processo conoscitivo


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deve muoversi, direttamente dentro il piano dell’esistenza, non è solo a capacità di affermare in maniera indistinguibile il rapporto fra mondo della scienza e mondo etico, e quindi di ridefinire l’ontologia come ontologia dell’etico: tutto questo non basta, perché il rapporto tra indifferenza del mondo, sua qualità etica e radicalità della contingenza ci pone in una situazione assolutamente tragica e deve quindi riqualificare in tal senso il nostro metodo.

Intendo dire che, attraverso a scoperta della contingenza noi poniamo in termini radicali il problema del fondamento: ma di nuovo in maniera completamente irriducibile alla tradizione, perché qui il fondamento non è il punto a partire dal quale il mondo si spiega - al contrario, questo fondamento è il punto a partire dal quale si dà il massimo allargarsi della dimensione della possibilità. Una possibilità tragica, un’eventualità che la nostra ragione e il nostro cuore non riescono talora a sopportare, - la distruzione, appunto dell’essere, una morte tanto generalizzata da non possedere ripetizione, - la fine, insomma, del tempo. Il fondamento non è quindi il più semplice degli elementi nei quali possiamo scomporre il linguaggio etico e logico, quasi il seme da cui sorgono gli alberi della vita: no, il fondamento è qui una cellula che può scindersi nella vita e nella morte, l’elemento semplicissimo dell’affermazione, della negazione, dell’essere e del non essere. Qui la dialettica non è evidente, anzi, non ha davvero nulla a che fare con il reale. In effetti qui esiste una regola esclusiva: o c’è l’essere o c’è il non essere. Tutta la logica tradizionale e tutta la metafisica classica, entrambe basate sulla partecipazione e su una qualche commistione dell’essere e del non essere, qui vengono meno. La dimensione metafisica ci si presenta come dimensione antagonista, la crisi è l’assoluto. Eccoci dunque a spiegare di nuovo come i rompicapi non siano altro che delle superficiali modalità rispetto alla profonda essenza di un essere per la prima volta portato alla potenza del non esistere. Nella fenomenologia del mondo contemporaneo questa situazione metafisica ci è presentata come terrore. La contingenza è il terrore. Vale a dire che la sovradeterminazione come linea di soluzione del rompicapi, come analitica della ragione che si oppone alla radicalità delle determinazioni empiriche, si presenta come terrore. La soluzione trascendentale o formalistica dei rompicapi


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dell’esperienza e della contingenza dell’essere è terroristica.

Non è la prima volta nella storia del pensiero occidentale che una situazione di crisi, dinnanzi all’immediatezza dei contrasti dialettici ed all’impossibilità di raggiungere altrimenti una sintesi, cerca una soluzione sovradeterminata dal terrore. Le pagine del << Leviatano >> costituiscono un punto di riferimento costante dell’esperienza metafisica. E quanto più la situazione diventa indifferente, tanto più il mondo delle immagini che regolano l’esistenza degli uomini è sottoposto a reazioni d’ordine, ad operazioni di semplificazione esemplare e terroristica: il capro espiatorio, la sostituzione del reale con l’immagine, la necessità metafisica del potere, queste favole vengono raccontate da sempre e da sempre funzionano come terroristica medicina alle malattie dell’umanità. Ma ora noi ci troviamo di fronte ad una determinazione del terrore che non tocca il mondo delle immagini, ma investe quello reale. Non è un capro espiatorio attraverso il quale, pur rudemente, l’essere possa essere risanato - non è questo che ci viene preparato, non è la vecchia morale, la potenza del bene e quella del male che accrescono o diminuiscono l’essere e che talora debbono essere esemplificate << in corpore vili >> - non è qui in gioco una concezione anche terroristica della pena come restaurazione dell’essere in riparazione di una colpa che l’essere aveva offeso: niente di tutto questo, - qui il terrore tocca la radice stessa dell’essere. Il terrore è tanto assoluto quanto è assoluta la contingenza dell’essere. Il terrore non tocca il regno delle immagini, dell’analitica, ma quello del reale, dei significati. Vige nel regno dell’estetica trascendentale.

Come sono poveri tutti i tentativi di rinnovare i fasti idealistici dell’analitica trascendentale in questa situazione! Si pensi al contrario a quel passaggio, già da noi ricordato, a quel passaggio centrale nella storia del pensiero contemporaneo, che è registrato nel << Primo abozzò di programma sistematico dell’idealismo tedesco >> il senso della crisi era inteso nella sua radicalità e si voleva, a fronte della crisi dell’individuo e dei lumi, identificare il passaggio che dall’estetica trascendentale potesse direttamente condurre ad una dialettica dell’illusione vera. Ebbene, quel passaggio per quanto sproporzionato nelle dimensioni nelle quali oggi la radicale contingenza dell’essere si presenta, pure è anche


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oggi metodologicamente adeguato. Ed invece eccoci di fronte alla ormai secolare storia dell’analitica plasmata in dialettica, eccoci alla ripetizione di analitici stereotipi neokantiani su questo frangente, alle chiacchiere fra Hegel e Heidegger, eccoci insomma di nuovo davanti alla apologia impotente della Krisis!

La determinazione esistenziale che segue la scoperta della radicale contingenza dell’essere ci si presenta ora con due caratteristiche. La prima riguarda la posizione che l’analisi filosofica assume nell’affrontare il tema dell’essere, la seconda riguarda la natura dell’essere. Ma sia la prima che la seconda di queste caratteristiche sono legate, in maniera inscindibile, nell’estetica trascendentale che qui viene definendosi. Vale a dire che non sarebbe possibile concepire il restringersi della ragione al campo dell’estetica trascendentale Se, contemporaneamente, la ragione non fosse enormemente potenziata dall’apprezzamento concreto della nuova potenza metafisica, che è appunto, insieme tragica ed etica. L’alternativa che l’essere presenta, nella sua assolutezza, nella sua esclusività, implica la definizione pratica della ragione. Questo senso della radicale contingenza dell’essere ci pone in una situazione Cartesian, - non astratta tuttavia bensì eticamente motivata. Come è difficile esprimere tutto questo nel vecchio linguaggio della filosofia: com’è difficile dire dell’eticità dell’essere e di questa metafisica precarietà che tocca il livello dell’estetica trascendentale in quanto tale! La metafisica si è sempre organizzata in un sistema di livelli per cui il superiore illuminava l’inferiore, o in un sistema di incastri, quasi un grande gioco di bambole russe, dove l’oggetto più grande conteneva il più piccolo e, per così dire, lo spiegava. Qui il linguaggio antico e specialistico della filosofia fa difetto, ed aveva ragione Foucault quando, rinnovando il metodo nietzschiano della << Genealogia della morale >>, rinnova anche le regole sintattiche del linguaggio della filosofia morale. Io vorrei qui tentare una simile via per quanto riguarda il linguaggio della metafisica.

Ora, siamo in una situazione Cartesian, ma non individuale, come si è detto, bensì collettiva e astratta, eticamente rilevante, - con ogni probabilità qualificata in termini antagonisti. Deve essere chiaro che qui noi dobbiamo risalire, trattenendoli dentro il livello dell’estetica trascendentale, a quei soggetti della descrizione fenomenologica che abbiamo inizialmente colto. L’alternativa


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dell’essere riguarda così l’intero campo sul quale l’astrazione delle potenze conoscitive e produttive diviene indifferenza, riguarda tutte le trafile che percorrono e qualificano queste dimensioni. Nel prossimo paragrafo cercheremo di vedere come il paradosso della contingenza dell’essere possa riproporre un cammino positivo per la ricerca: qui ci basti insistere sempre di nuovo sulla forza di comprensione e sulla capacità di riassumere in sé la totalità, che ha l’alternativa tragica dell’essere. Questo nuovo territorio ontologico ed etico riguarda perciò l’epistemologia nella sua totalità. E’ evidente che tutti problemi andranno riportati alle dimensioni di questa drammatica dualità delle potenze dell’essere. La contingenza è totalità anche e soprattutto sul piano dell’epistemologia.


4. L’antagonismo come << principium individuationis >>.

Se dunque la definizione dell’essere come assoluta contingenza ci ha permesso di cogliere le condizioni per così dire negative di un’estetica trascendentale, ora probabilmente l’approfondimento del discorso potrà permetterci di toccare alcune condizioni positive di questo medesimo problema. Abbiamo già sottolineato come per contingenza assoluta s’intenda la possibilità della distruzione radicale dell’essere, - e come l’antico principio << Factum infectum fieri nequit >> venga in tal modo messo in crisi. Ma nell’approfondire la potenza negativa di questa percezione, non possiamo né dobbiamo dimenticare l’altro aspetto inerente a questa strutturale determinazione: vale a dire che, se la contingenza assoluta mostra l’estrema possibilità di distruzione, di perciò stesso essa indica una radicale possibilità di costruzione. E’ come se fossimo messi dinnanzi ai materiali semplici che compongono l’essere, in una situazione limite di possibilità costruttiva. Nella filosofia, più volte questi principi di costruttività sono stati proposti: e forse la forma eminente nella quale il principio si è espresso, è quel << Verum ipsum Factum >> che dobbiamo a Gianbattista Vico. Risparmio qui, a me e al lettore la farraginosa ermeneutica delle fonti e delle interpretazioni: se il principio sia idealistico o materialistico, se assoluto o relativo, se spiritualistico e creativo o semplicemente filologico e costitutivo,


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ecc. ecc.. Certo, il principio riguarda il mondo delle immagini, interpreta il reale e non lo fonda radicalmente. Qui invece, quando ci troviamo di fronte al principio della contingenza assoluta, viviamo un paradosso che investe interamente lo spazio, meglio la separazione, estesi fra negatività e positività assolute. Non so come meglio spiegare questo paradosso, questa tensione estrema del concetto, questa condizione anche emotiva - che ci coglie quando tentiamo di metterci in situazione! Perché infatti non è semplicemente il << Verum ipsum factum >> quello che qui affermiamo - qui affermiamo qualcosa di molto più profondo: << Ens ipsum factum >>. La storia umana, pervenuta all’orlo della distruzione dell’essere, rivela a se stessa, e a tutti i soggetti umani che vivono la storia, che questa, e il mondo e la natura stessa, sono una loro continua produzione. Non ci sarebbe mondo senza questa produzione. Quest’affermazione che è sempre stata fatta passare per idealismo assoluto, - oggi, la consapevolezza della possibilità materiale di distruggere il mondo, ci rende come affermazione di un assoluto materialismo.

Lo abbiamo già accennato, ma ora, continuando nella ricerca, vale la pena di sottolinearlo più ampiamente. Dentro questa radicalità fondativa della contingenza assoluta noi non verifichiamo un punto catastrofico bensì una tendenza ontologica. Se pensiamo il punto catastrofico, se pensiamo il terrore, è solo perché questi poteri costituiscono delle spie su un profondo corso dell’essere, e cioè sul rapporto fra serie delle azioni umane e loro cumularsi complessivo. Il mondo è questo cumulo, è questa complessità. La materialità che costituisce il passato del mondo viene così mano a mano riassunta nella tendenza della storia. La natura diviene (sempre più) storia. Anche in questo caso è l’attuale possibilità della sua distruzione che ce lo rivela, poiché la distruzione mostra la natura, il mondo naturale, come contingenza e quindi come qualcosa che nella misura stessa in cui può essere distrutta, può essere conservata - ma conservare significa qui ormai produrre, riprodurre, sviluppare... La natura diviene una protesi dell’uomo. Sempre di più, non è dell’uomo la condizione ma ne è piuttosto la conclusione. E questo vale non semplicemente per la natura, ma per la totalità fenomenologica, per quella enorme quantità di beni, di infrastrutture, di condizioni materiali che la storia umana ha costruito e che ora, su

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questo passaggio epocale (nel quale tutto è sussunto nel capitale e tutto può dunque essere distrutto), è insieme condizione di distruzione o determinazione rinnovata da una potenza d’innovazione. Alla radicale contingenza dell’essere corrisponde così, proprio sul paradosso della mancanza di fondamento, una dinamica continua, tendenziale, totalizzante, - il problema dell’essere vi è implicato e con esso, necessariamente, quello della storia e quello dell’ecologia, quello storico e quello scientifico.

E’ chiaro che questa apertura di prospettive e di sublimi orizzonti in qualche modo potrebbe qui lacerare il drammatico ed estremo paradosso della contingenza assoluta, - è chiaro inoltre che questa serie di intuizioni del tutto metafisiche, se da un punto di vista iniziale sono linearmente distese, potrebbe appiattire l’indagine svigorendo l’evidenza del continuo rinnovarsi del problema - al contrario, tutto ciò annulla la percezione fondamentale della contingenza se la natura di questa viene coerentemente e continuamente definita come antagonistica. Voglio dire che quell’elemento di rottura, di contrasto, di antagonismo, che risulta definire la medesima percezione fondamentale dell’essere - come rapporto tra positivo e negativo, tra essere e non essere - che tutto ciò permane, si prolunga, si ripresenta su ogni punto dello sviluppo della tendenza. Questa determinazione antagonista è qualcosa che partecipa di ogni azione umana, nella misura in cui ogni azione umana contiene una particolare densità, costruttiva o distruttiva dell’essere. Ed è proprio dentro il continuo ridimensionamento del positivo e del negativo, dentro l’infinita serie di rapporti che in questo modo si determinano, è dunque in questo modo che l’individualità, la singolarità umane vengono definendosi. Nella filosofia seicentesca, quando l’atomismo propone per la prima volta l’alternativa tra distruzione e creazione dentro la prospettiva del meccanicismo, quest’idea dell’individuazione antagonista prende corpo. Oggi, quando il principio del rapporto fra distruzione e costruzione è strappato all’intelligenza aurorale dell’atomismo e condotto alla sperimentazione etica, sembra dunque che quel criterio di individualismo possa essere ripreso. Ma di ciò più avanti.

Qui, prima di ritornare sul criterio di individuazione, val la pena di sottolineare come le forti intuizioni che il pensiero moderno alle sue origini aveva sviluppato, sul terreno dell’estetica

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trascendentale, in vista della definizione della singolarità, siano state ampiamente negate nello sviluppo successivo del pensiero filosofico. L’analitica trascendentale è la forma, come abbiamo visto, nella quale questa negazione si costruisce e si sviluppa. Ma non è la sola forma: assistiamo infatti, con frequenza, ad una negazione che non è, per così dire, l’assolutizzazione di un momento del processo conoscitivo - e con ciò la sua alienazione analitica della totalità, - è bensì una specie di storicistica o teleologica forma di sottrazione del conoscere, dell’uso conoscitivo dell’essere. Vale a dire che il pensiero moderno, tutto teso alla ricerca e alla giustificazione delle forme tecniche della riproduzione umana, ha rifiutato di cogliere nell’antagonismo - nell’assolutizzarsi di questo - la chiave di volta dello sviluppo, e contemporaneamente della determinazione dell’identità umana. Una teodicea della scienza e della tecnica è così venuta sostituendosi all’analisi dell’essere. I problemi del valore sono stati di volta in volta sottratti alla centralità che pretendevano sul terreno dell’essere, e portati davanti a tribunali di grado inferiore. Di fatto l’essere viene in tal modo depotenziato, ed è un processo di depotenziamento, di subtribunalizzazione continua, quello cui assistiamo. Anziché mantenere la tragedia dell’essere come elemento che ne qualifica la presenza - e ciò era già stato ampiamente mostrato alle origini del pensiero moderno - invece dunque di mantenere questa potentissima presenza, la si fugge. Il pensiero contemporaneo quando coglie la crisi, non la coglie come elemento di costruzione ma come incentivo alla fuga. Trasforma la crisi in nihilismo, trasforma la morale della crisi in irresponsabilità ontologica. La dimensione globale, metafisica, profonda nella quale si presenta il rapporto fra essere e non essere deve essere sfumata, sfuggita. Ci si dedica alla scienza ed alla tecnica - ma non sono appunto queste ultime che ci riconducono ineluttabilmente su quell’orlo della distruzione dell’essere? Che significato ha più, a questo punto, parlare di laicizzazione, o riguardare con una punta di scetticismo, o con elegante e colta ironia, la possibilità della distruzione? Il tragico percorre la nostra vita, ma è solo in quanto lo riconosciamo, lo assumiamo, facciamo di esso la disutopia positiva della nostra conoscenza - è solo in questo modo che riusciamo a garantire la libertà dalla distruzione e la sopravvivenza dello spirito. E’ completamente

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idiota la rivendicazione della laicità, contro la religione, se quella rivendicazione nasconde che la nostra determinazione nasce sul ritmo della distruzione, è insomma una condizione tragica per eccellenza. Alla religione non si oppone il laicismo ma si può solo opporre un’altra religione - quella del materialismo, quella di chi sa che vivere o morire è problema suo.

Eccoci dunque in una situazione nella quale qualsiasi tipo di fuga dai problemi dell’essere ci diviene impossibile. La volontà amaramente si confronta con se stessa nell’ambito di questa contingenza - e anche la ragione guarda all’opposizione che la costituisce, con fredda ma non meno timorosa attenzione. Ciò detto, v’è di contro e contemporaneamente quell’aspetto dell’essere nel quale risiede la possibilità di ricostruzione, di una ricostruzione radicale e profonda, - v’è dunque quest’aspetto dell’essere cui tentare di adeguare il cammino metafisico. Questo tentativo di adeguamento deve essere operoso - lo dico con qualche distacco, per distinguere le condizioni nelle quali oggi un discorso sulla speranza è possibile, dall’emergenza che questo tema ebbe nell’ambito della filosofia contemporanea fra le due guerre. Voglio dire che << Das Prinzip Hoffnung >>, il principio della speranza, non può qui essere concepito, come invece lo fu da Bloch e da Benjamin, come blitz irrazionale che si sottraeva alla crisi, all’esaurimento delle condizioni della rivoluzione - qui la speranza nasce dopo Auschwitz e Hiroshima, qui nessuno fugge più nulla. Qui speranza, dunque, è la stessa cosa dell’operare, e un senso della mancanza di fondamento talmente profondo (e che ci teniamo sulle spalle), è la sorpresa del vivere quotidiano - la nostra speranza non ci fa attendere nulla se non il miracolo della nostra quotidiana riproduzione. Ma tutto questo è una forza enorme, tutto questo contiene il principio etico dell’estetica trascendentale. Dagli anni `30 a noi è cambiato solo questo - ed è enorme e cioè che l’approfondimento del concetto di crisi è pervenuto all’essere, ha strappato i veli letterari e filosofici che lo mostravano come risultato intellettuale dell’analitica, per diventare una cosa. Una cosa reale, che si tocca, un incubo che si vive, un terrore che si subisce. E’ questa materialità della crisi e dell’essere nella crisi che la speranza interpreta. La chiamiamo speranza perché non sappiamo come altrimenti chiamarla; e qualcuno potrebbe ironizzare, e dire la desuetudine di questo termine,

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senza tuttavia per questo scandalizzarci. Prendiamola dunque questa parola come un neologismo per identificare quel rapporto operoso che si stende tra la condizione negativa e catastrofica e quella positiva e creativa dell’essere.

Solo su questo terreno, dentro cioè l’antagonismo oggettivo che l’estetica trascendentale rivela, dentro il presentarsi con polarità contrarie dell’essere, dentro l’eticità del nesso che tutto questo collega ma che nello stesso tempo tende in maniera insopportabile - qui il processo di individuazione si dà. Sarebbe bello - altrove lo faremo - riportare a questo proposito la nostra memoria al << Libro di Giobbe >>, dove appunto il problema metafisico dell antagonismo, della colpa e della retribuzione materiale, pervengono poeticamente ad una fantastica quanto materialmente determinata definizione dell’individuo. Ora, è appunto questo il terreno sul quale, rompendo con l’indifferenza dell’orizzonte postmoderno, del capitale sussunto, della comunicazione onnicomprensiva ed equivalente, la soggettività si pone. Credo che il processo logico attraverso il quale la determinazione complessiva si realizza, sia qui ormai chiaro. Ma non si tratta, in primo luogo, di rompere o di interrompere il meccanismo circolare che costituisce il tessuto fenomenologico del mondo. Si tratta invece di considerarne la condizione metafisica, e cioè quella destinazione alla distruzione che esso ha in se stesso. In secondo luogo, questa contingenza rivelata, si mostra come paradosso: quindi essa si apre ad un’alternativa completamente etica, l’alternativa dell’essere e del non essere. Questa alternativa qualifica in termini tendenziali l’intero universo dell’esistente. Noi la percepiamo ed è collocandoci nell’intreccio delle pulsioni negative e positive che da questa tendenza sono prodotte, che determiniamo la nostra individualità. L’orizzonte analitico negava ogni individualità, meglio, confondeva la singolarità in una circuitazione continua ed equipollente. Quest’orizzonte era insuperabile, era un labirinto logico, una Babilonia linguistica ed una sodoma morale. E’ solo il senso della distruzione, di questo mondo logicamente ed analiticamente corrotto ma anche, con esso, dell’essere stesso, è dunque solo questa distruzione che ci rimette davanti all’essere. Un essere fondamentale perché lo si può distruggere o ricostruire, un fondamento che è contingenza assoluta. E la singolarità viene determinata

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dalla tensione che a contingenza comprende in definizione. L’estetica trascendentale viene così positivamente determinandosi.

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