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5. L’istituzione logica del collettivo e le fatiche dell’estetica.
(A proposito del libro su Frege di Roberta De Monticelli).


E’ noto come il linguaggio - in quanto insieme di proposizioni ma anche, semplicemente, insieme sensato di proposizioni - possa essere considerato un orizzonte intrascendibile. Quando l’orizzonte linguistico venga presentato secondo queste determinazioni, diciamo che il linguaggio costituisce un orizzonte ontologico - è il mondo e non ce n’è altri. Oppure ce ne possono essere altri, ma altrettanto esclusivi: se vi siano chiavi per trascorrere dall’uno all’altro è problema che inizialmente non ci tocca. Se l’orizzonte linguistico è ontologia, è mondo, allora il problema della verità può essere posto solo al suo interno: la corrispondenza al reale della proposizione andrà epistemologicamente verificata nel suo valore logico in quanto questo sia ritrovato nella circolarità dell’orizzonte medesimo. L’epistemologia in senso proprio (come teoria della verificabilità della popolazione nella sua corrispondenza con il reale) è finita. Meglio: è riassunta nell’ontologia. Un’ontologia che, nel mondo linguistico, può solo essere formale, non può cioè promuovere la sua forza di verifica che dall’interno di una correlazione indipendente. Intrascendibile, appunto. Se ci chiediamo quale sia il significato di una proposizione, entro quest’intrascendibile universo linguistico, non potremo far altro che ricercarlo seguendo i tratti formali del senso della proposizione - non certo ricorrendo a funzioni semantiche di interpretazione che presupporrebbero il linguaggio e il mondo come indipendentemente caratterizzabili. La verità si mostra al pensiero, dentro al pensiero - essa non è l’obiettivo della logica ma l’oggetto e la sostanza del pensiero. Nelle scienze naturali si cerca la verità, nella logica la si mostra. L’interferenza logica è solo un movimento - non una produzione - di verità. Secondo Frege, nella lettura dei suoi maggiori interpreti ed ora di Roberta De Monticelli (Dottrine dell’intelligenza. Saggio su Frege e Wittgenstein, De Donato, Bari 1982), << il Sinn di un’espressione è il modo di determinazione, o anche il modo di datità o di presentazione della Bedeutung di quell’espressione >>. Il senso è dunque l’istituzione di uno spazio logico - istituzione dell’ordine esclusivo delle possibilità logiche che l’espressione preta.


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Inoltre, Frege aggiunge: << lo sostengo che il concetto precede logicamente la propria estensione e considero erroneo il tentativo di far dipendere l’estensione del concetto come classe non dal concetto ma dagli individui >>. Il valore semantico dei segni linguistici è dunque il loro potenziale di discriminazione ontologica: il Sinn crea la Bedeutung, l’insieme delle proposizioni è il mondo. Michael Dummett (nel suo Frege del 1973) non ha esitato a considerare di importanza Cartesian la svolta linguistica della filosofia imposta appunto da Frege.

Roberta De Monticelli, il cui volume merita un’approfondita discussione, non ha dubbi nel trarre decisamente verso un orizzonte linguistico, qualificato in termini di intrascendibilità, anzi senz’altro Wittgenstein, la teoria del pensiero - ed in genere la logica di Frege. Quest’operazione viene condotta nei primi otto capitoli che costituiscono la prima parte del suo volume. Le critiche che si possono opporre a questa prima operazione di geometrica proiezione di Frege su Wittgenstein (operazione che potrebbe essere ritenuta di appiattimento) sono parecchie. Meglio di tutti, e con molta attenzione filologica, le eleva Michael Dummet [sic one or two t’s? ] nella sua prefazione al volume. Il peso indubbio di queste critiche non toglie il fatto che l’operazione della De Monticelli, nel suo libro, sia molto robusta e stimolante.

Ma vediamo lo obiezioni di Dummet. a) L’autrice esagera il carattere aprioristico del pensiero di Frege - il resoconto a priori del linguaggio che Wittgenstein elabora nel Tractatus, non è invece nel programma di Frege. b) La negazione dell’epistemologia non è in Frege presupposizione di una metafisica realistica - come invece avviene in Wittgenstein. In Frege v’è al massimo un orientamento in tal senso. c) Il rapporto fra realismo ed oggettività dei pensieri e del loro valori di verità non esclude, come invece avviene nel Tractatus, i problemi dell’apprensione, della nostra capacità di riconoscere le condizioni di vera. d) Troppo facile è la riduzione della Bedeutung al Sinn - in realtà, in questi termini, il linguaggio viene ridotto a concetto astratto. Ma storicamente non è avvenuto così. La svolta linguistica della filosofia non ha tralasciato la considerazione del rapporto reale e il Sinn, come in genere il rapporto logico, è stato inizialmente interpretato come veicolo del reale. e) E’ davvero il pensiero di Frege tanto coerente quanto la De Monticelli (poggiando sul tardo


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scritto Der Gedanke - 1918) ritiene? Come distinguere e come ridurre ad unità e continuità tesi diverse, se non contraddittorie [contradditorie ?], sostenute in opere diverse? f) E infine: l’autrice non tiene presente altri elementi che caratterizzano - fuori ed indipendentemente dal Sinn - gli enunciati: in particolare la << forza >> della Bedeutung, ovvero una relazione di verità immediatamente evidente, in funzione comunicativa. La comunicazione è dunque, nello stesso Frege, elemento dell’intelligenza.

Come ho già detto, credo che queste obiezioni, più che inficiare lo schema della ricerca della De Monticelli, ne mostrino a robustezza dell’impianto. Poiché, a mio avviso, quanto è filologicamente avventuroso - il sospetto appiattimento di Frege su Wittgenstein - è filosoficamente legittimo e vale a porre un problema per noi fondamentale. Poco importa se sia un problema nuovo. A me sembra infatti che, attraverso la sua interpretazione nella svolta linguistica della filosofia, la De Monticelli esplichi un paradosso teorico - che può essere così formulato: l’ontologia formale dell’orizzonte linguistico del Tractatus interpreta correttamente le istanze realistiche e l’apertura alle esigenze della comunicazione che sono proprie della filosofia fregeana. Fra Frege e Wittgenstein non cambia il desiderio di realtà - è cambiata, effettualmente, la realtà. Il mondo ci è dato nella forma dell’ontologia linguistica - la genesi fregeana di quest’ontologia non è contraddittoria con il risultato - malgrado il carattere paradossale del processo. Il mondo linguistico sussume i problemi del realismo. (E’ chiaro allora che a M. Dummet, che dagli anni ‘50 va sviluppando una concezione antirealistica ed intuizionistica del linguaggio, queste premesse della De Monticelli sembrino fortemente criticabili. Diverso sarà l’atteggiamento di M. Dummett a fronte delle conclusioni dell’autrice - ma di questo più tardi).


<< Nella seconda parte del suo libro, la De Monticelli fa un audace tentativo di costruire un’epistemologia sul fondamento della filosofia del pensiero esposta nella parte prima >> (M. Dummett). Vale a dire che la De Monticelli, memore del debito con il realismo fregeano, dopo aver descritto la sussunzione del mondo nel linguaggio, cerca di dare caratteristiche materiali all’ontologia costituita, di riarticolare l’universo - fin qui solo formalmente descritto. Deve appunto mostrare la genesi del risultato.


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Deve riaprire la dialettica dell’epistemologia a livello di una metafisica realistica. Che questo - della riarticolazione realistica dell’orizzonte formale della comunicazione - sia un problema attuale, che la riproposizione di un compito epistemologico (in senso proprio) costituisca un passaggio centrale, nessuno, credo, potrà negarlo. E che questo cammino debba svilupparsi secondo figura capaci di esprimere, a livello di questo mondo sussunto, la materialità della vita, sembra addirittura ovvio.

La De Monticelli risponde solo parzialmente alla questione che si è proposta. Definito correttamente il terreno della ricerca, se ne ritrae infatti precipitosamente, scegliendo una consueta quanto perniciosa scorciatoia nello svolgimento del compito: una via kantiana. Nei capitoli IX (<< La ‘vita’ e il ‘mondo’ >>), X (<< Frege e la teoria kantiana dell’intelligenza >>), XI (<< Esperienza e giudizio >>), che aprono la seconda parte del suo volume, la De Monticelli tenta dunque di sviluppare, su base fregeana, una dottrina complessiva dell’intelligenza. I tre capitoli costituiscono, nell’allargamento tematico che presentano, un’analisi degli elementi di avvicinamento di Frege a Kant, nella teoria della percezione, nella teoria dell’lo e dell’autocoscienza, nella teoria del concetto. E’ chiaro che, in questo campo, ogni passo verso Kant è un passo di allontanamento da Wittgenstein. Ma l’argomentazione si fa appunto teoretica. E si svolge: a) attraverso la ridefinizione di una teoria della percezione cognitiva, in senso kantiano, e cioè di una teoria che prevede la coincidenza di elementi percettivi e di elementi intelligenti come condizione dei primi. Il segno kantiano è allegato alla teoria delle condizioni dell’essere conoscitivo; b) la ridefinizione di una teoria trascendentale dell’orizzonte linguistico, ovvero del passaggio - mediato dall’io cosciente - dalla percezione degli oggetti alla definizione dei concetti. Questo kantiano passaggio contiene la refutazione dell’idealismo soggettivo; c) terzo punto è l’elaborazione della teoria del concetto come sintesi di esperienza ed intelligenza nel linguaggio. Su questo terreno la De Monticelli sviluppa con coerenza la teoria del concetto verso l’articolazione di funzioni logiche (ad esempio, con riferimento al problema dell’individuazione) e la rifonda nella prospettiva costitutiva dello schematismo trascendentale. La relazione Sinn Bedeutung è oggi completamente risolta dentro questo rapporto.


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Ci ritroviamo qui su uno snodo fondamentale. A me sembra che questo uso del kantismo rappresenti un’éscamotage che annulla la determinazione globale dell’orizzonte linguistico. Il problema dell’articolazione raggiunta, viene disarticolato nel linguaggio kantiano. Lo schematismo è chiave della teoria del giudizio e dell’estetica. Evita la produzione. Insomma, è una recessione nella questa che la De Monticelli propone.

Nei capitoli successivi XII-XV, l’avvicinamento a Kant viene ulteriormente spinto e specificato - nel senso che, sulla base della dottrina fregeana dell’<< afferrare >> (posta a contrasto, a differenza del << giudicare >> kantiano), tutto il processo viene per così dire centralizzato, appesantito, << empiriocriticizzato >>. Si badi bene: non è che l’orizzonte kantiano sia superato, la verità non viene tolta alla sua realtà trascendentale-critica (e si rifiuta radicalmente la teoria della verità-verificabilità) - l’orizzonte kantiano viene << più >> empiricamente connotato. Così ad esempio, si insiste sul ruolo delle << espressioni indicali >>, degli << stati modali >>, sul << colore >> delle proposizioni. Per concludere: << la valenza epistemologica del concetto di senso (ritenuto il vecchio concetto di epistemologia come rapporto fra verità e verificabilità) fa della posizione di Frege un realismo forte, ma non un realismo puro >>. Un realismo << poetico >>, soggiunge la De Monticelli. Annotazioni analoghe si possono fare quando l’autrice passa, dalla dottrina del Sinn, alla considerazione della teoria della Bedeutung. La funzione riferimento, con le sue due caratteristiche di immediatezza percettiva e persistenza concettuale, viene riportata all’orizzonte del realismo << impuro >> dell’intenzionalità, à la Brentano. Il processo dell’individuazione ha solo degli aspetti delle componenti epistemologiche - di verificabilità. << Vie d’accesso alle cose >> - che non si concludono, sentieri interrotti. I processi d’individuazione hanno componenti epistemologiche ma solo la teoria del Sinn determina la completezza del progetto. La sensibilità è infatti coinvolta nelle procedure di individuazione ma non nella procedura di giustificazione dell’oggetto. La comunicazione, le funzioni-riferimento sono intenzionali. Il processo di verifica non è altro che un processo, un ondeggiare fra apparenza e realtà, fra soggettivo ed oggettivo, una descrizione fenomenologica del processo stesso. L’idea di distinguibilità fra essere ed apparenza è costitutiva della percezione - ma solo, appunto,


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come idea e dinamica. Nel cap. XV la tesi viene ulteriormente ribadita e sviluppata, sulla base dello schematismo kantiano della percezione e del concetto - con una nuova forzatura in termini estetici [estatici?] e poetici della tematica.

Quest’innesto, sull’albero della filosofia linguistica, di apporti kantiani e fenomenologici, pur essendo tipicamente scolastico (nell’accademia Italiana), coglie tuttavia la polarità fondamentale del pensiero filosofico contemporaneo che si confronta con la sovradeterminazione ontologica del mondo linguistico - fra Husserl e Wittgenstein. Originale è nella De Monticelli il sentimento della necessità della disarticolazione interna dell’ascettivismo husserliano e del misticismo wittgenstiano - e la sua tendenza a riconquistare il senso della realtà della totalità linguistica, inverandone la genesi, ad esperire con coraggio l’istituzionalità complessiva dello spazio logico e la sua potenziale elasticità. All’originalità della strategia si contrappone [sic] l’infelicità della mossa kantiana.


Commentando la seconda parte del volume della De Monticelli, M. Dummet - come aveva criticato la trazione di Frege verso Wittgenstein operata nella prima parte - critica ora la torsione kantiana qui operata. In sostanza Dummett nega la possibilità filologica di questa torsione - sia a proposito della teoria dell’lo, sia della teoria del senso e dell’intenzionalità, sia in genere su tutti quei punti di vista nei quali si valuta [voluta?] e si ristabilisce il rapporto fra teoria del pensiero e teoria della conoscenza. Di nuovo queste annotazioni filologiche di Dummett vanno accettate. Senonché esse sfiorano solamente la critica - ed il problema della De Monticelli. se infatti come il problema teorico fondamentale,. qui proposto, dovremo - piuttosto che ribattere filologicamente alle conclusioni della ricerca - riprendere il suo filo. E rifiutare dunque non tanto la trazione verso Wittgenstein del realismo fregeano quanto la specifica torsione kantiana nell’interpretazione della sovradeterminazione ontologico-linguistica. La De Monticelli è convinta che il mondo conquistato rappresenti la fine dell’universo del Logos. Difficile sarebbe sollevare in proposito obiezioni. Quanto all’uso di Kant, su questo tornante ed alto scopo di sottolineare la possibilità che la Krisis offre - esso è, almeno a partire da Schopenhauer, consueto. Ma d’altro canto, non ci


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sembra che la De Monticelli sia disponibile a trarre dalla crisi del Logos conclusioni irrazionalistiche. Sicché, tra i divergenti rifiuti, essa sceglie una via intermedia, tentando la riarticolazione del mondo della Krisis attraverso un’ambigua sfera della percezione: fantasmi che schematicamente adempiono a funzioni trascendentali. Un realismo impuro? (oppure, nella qualificazione leniniana dell’empiriocriticismo, un idealismo impuro?). Una teoria dell’immaginazione? Di fatto, come s’è già visto, negli ultimi capitoli del suo appassionato libro, la De Monticelli spiega la ricostruzione di una prospettiva kantiana nel senso di una sorta di realismo poetico - impuro. Realismo - perché l’immersione nel mondo è senz’altro fondante e le qualificazioni di verità e falsità costituiscono le condizioni stesse del linguaggio (<< Nella sostantivazione del predicato ‘vero’ si cela (si mostra) l’essenziale identità di categorie ontologiche (stati di cose, fatto e dunque classe e cosa) e categoria logica delle sue espressioni >>). Ma realismo impuro: poiché la possibilità di discorrere dell’essere è fondata sullo scarto - e soggettivamente sullo scontro - fra ciò che logicamente comprendiamo e ciò che la logica mostra. Il pensiero dell’essere, il realismo diventano misura dell’imperfezione logica - ed i filosofi, nel momento stesso nel quale si riconoscono nell’universo linguistico, debbono provarsi nella trasformazione del << rumore >> in significato e nell’adeguare le forme linguistiche alle funzioni. Qui, su questo passaggio, la questione del linguaggio non verbale diviene centrale. L’impurita del realismo logico non è solo un limite - è anche una produzione di sensi diversi. La Krisis del Logos è la possibilità di nuovi significati reali e di nuovi sensi linguistici. Il realismo impuro è realismo poetico.

Ma ricostruire un orizzonte articolato e realistico, nella crisi del logos, dentro la svolta linguistica, è forse compito che possa essere affidato alla poetica? E’ con estremo disagio che mi propongo questo interrogativo perché, se da un lato sento la suggestione della proposta e la forza e il colore e la costruttività del progetto (non nuovo tuttavia, è già nello Steinhof, attorno ai medesimi problemi, prospettato), pure non riesco a considerare la poesia come alternativa alla crisi del logos. Certo, è il pregiudizio di una millenaria cultura che in ciò mi blocca: ma, en philosophie, è anche la convinzione che la conoscenza estetica non innovi rispetto alla logica, che sia rinchiusa nello stesso orizzonte.


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Che, confusamente, essa aspiri alla potenza della tautologia. Per la filosofia del linguaggio come per l’estetica, all’interno della sovradeterminazione linguistica, la verificabilità è tolta. La crisi del Logos consiste nel suo deficit realistico. L’ontologia dell’universo linguistico è raggomitolata nella formalità. L’intrascendibilità è mistica. Il problema è dunque quello di ridare spessore realistico a questo mondo del linguaggio e della comunicazione. Perché mai l’estetica dovrebbe avere la capacità di compensare a crisi del Logos? Non ne è invece la semplice trascrizione? O, semmai, addirittura lo sviluppo in termini fantastici, idealistici? La funzione dello schematismo trascendentale si stempera man mano in funzione riflettente, nel giudizio estetico e l’lo trascendentale, nell’idealismo classico, stravolge a questa stregua la stessa confutazione kantiana dell’idealismo soggettivo. Perché dunque vestire il pensiero nudo, così faticosamente riconquistato, come rappresentante di una nuda vita - perché fargli indossare le vesti di Arlecchino - poetiche ma pagliaccesche?


Se ci fermassimo a questo punto non intenderemmo tuttavia appieno l’importanza del libro della De Monticelli. Vale invece ricordare, proprio quando essa arriva a queste conclusioni, che da ben altro si era mossa e ricostringerla a Frege e a Wittgenstein. Chiediamoci dunque di nuovo: perché Frege? Perché Wittgenstein? Perché è tanto importante riprendere l’analisi a partire da questi autori?

Ora, il problema è la Krisis del Logos. Crisi esasperata dalla conclusione wittgensteiniana della logica nel Tractatus, dalla sovradeterminazione mistica che la sussunzione logico-linguistica del mondo riceve. La De Monticelli attacca la sussunzione ripercorrendone la genesi: Frege. La domanda è quindi: evitando ogni éscamotage kantiano, può Frege indicarci, assieme alla via verso la sussunzione logica, una chiave di articolazione - che è come dire, di riappropriazione logica del mondo? Secondo me è possibile rispondere affermativamente alla questione - pur trattenendo il gioco filosofico fra questi due autori. Purché la potenza del pensiero logico di Frege sia assunta fino in fondo e la dialettica fra la genesi fregeana della sussunzione logistica del mondo e la sovradeterminazione mistica che ne fa Wittgenstein siano considerate in tutte le loro articolazioni. Ora, Wittgenstein


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raccoglie e mistifica il procedimento fregeano. Poiché Frege costruisce un mondo di oggetti in cui la tensione al passaggio, al dislocamento verso l’orizzonte della generalità non toglie in nessun caso la referenza ontologica. La generalità astratta è reale Frege scopre lo scheletro del mondo come comunicazione, come informazione. Se in Kant la contaminazione dell’orizzonte analitico e di quello empirico spinge su verso l’io trascendentale e il giudizio sintetico a priori, in Frege e nella logica rivoluzionaria la tensione dell’analisi è inversa, rivolta verso la produttività dell’essere, è costitutiva di oggetti sul terreno delle astrazioni reali che li compongono. Il giudizio vuole essere analitico a posteriori. In Frege l’autonomia relativa dell’orizzonte del Sinn è sempre piegato alla referenza ontologica della Bedeutung. Di contro, Wittgenstein, assumendo la tensione fregeana alla sussunzione logistica del mondo, la fonda come logicismo, come regno della tautologia. La tensione ontologica della logica cade - il reale è sospeso. Di conseguenza interviene il misticismo come conclusione adeguata all’impossibilità di risolvere la differenza del Sinn e della Bedeutung - il sentimento dei limiti del dicibile e del pensabile prende il luogo del processo di produzione della logica del mondo. In Wittgenstein la composizione conclusiva del Logos è perciò la sua crisi. Ma non è possibile riproporre la produttività della logica a livello di dislocamento? Leggere Wittgestein [sic] attraverso la genesi del logicismo, piegandone le conclusioni alla dinamica materiale attraverso la quale si produce questo stesso suo mondo? Se il problema della De Monticelli è questo, come crediamo, è altresì vero che nella sua soluzione essa non ne ha rispettato le condizioni. Che sono invece ciò che a noi più interessa. Le condizioni fregeane del dislocamento verso la sussunzione logica sono infatti tali da introdurre - contemporaneamente - l’unità e la molteplicità, l’intensità e l’estensione, e soprattutto da porre le regole del dinamismo di questo mondo astratto - delle sue relazioni e della sua dualistica asimmetricità. L’istituzione dello spazio logico in Frege è la definizione della possibilità del suo movimento. Wittgenstein è invero il Berkeley, il mistico vescovo dello sviluppo del realismo logico contemporaneo lo scopritore di una paradossale e paralizzante riduzione del mondo reale nell’identità tautologica. Frege è lo Hume del realismo logico, colui che ci dà le chiavi attraverso cui entriamo in quel mondo


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dell’astrazione reale che è nostro, ed ivi identifichiamo gli oggetti nuovi e propri, classi ed insiemi, individui di nuova specie. Dualismi, equinumericità, asimmetrie. Certo, stando a Frege, lo scontro fra logica ed ontologia non si chiude mai: ma a che formidabile livello è stata traslocata la figura di questo scontro! L’astrazione del mondo, l’intelletto generale è l’ambito dello scontro - la comunicazione non assume ipotetici fondamenti alla sua origine, svolge piuttosto insieme identificazione e scontro dei soggetti come vicenda di elementi continuamente emergenti sull’orizzonte dell’informazione. Frege non raggiunge l’astrazione reale, l’assoluta intrascendibilità del mondo di Wittgenstein - ma quest’ultima è un immobile paradosso. Frege pone il problema di rompere il paradosso produttivamente, definendo il nuovo quadro di articolazioni nel mentre cerca di mostrarne la tendenza di sviluppo. Tendenza che non si concluderà mai perché lo scontro è la sua chiave dinamica. In Wittgenstein la logica intensionale del Sinn conduce ad un’ontologia a valore zero e, conseguentemente, la logica estensionale della Bedeutung riconosce l’annullamento della sua stessa possibilità. In Frege la logica intensionale ha un contenuto relazionale e quindi esalta la logica estensionale in un orizzonte plurimo, in un’ontologia aperta.

A me non importa molto che la De Monticelli non abbia sviluppato il suo discorso in questo senso. Ritengo particolarmente infelice il tentato éscamotage kantiano (che, oltre tutto, come riconosce lo stesso Dummett ha ben poche ragioni sul piano filologico). Ma ritengo che i problemi posti dalla De Monticelli siano fondamentali. Andiamo oltre la Krisis del Logos cercando di attraversarne l’intera intensità: questo ci sembra dire, in maniera irrefutabile, la De Monticelli. Ed è questo orizzonte della sussunzione, dell’astratto generale, questa Krisis che riformulano gli oggetti e riqualificano le dinamiche e gli ambiti. E’ qui dentro che il mondo - questo incredibile ma vero astratto mondo - si fa ora vita e produzione.


Di qui in avanti la De Monticelli non ci aiuta più. Crede infatti di poter scegliere una via estetica per la soluzione di quello che chiamiamo il << problema Frege (Hume) >>. Già Hamann e i primiromantici lo pensarono: il Belief diveniva alternativamente Gnade oppure costruzione estetica. Ma l’estetico non è che la proiezione


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depotenziata del logico mondo dell’individualismo. Né Kant può aiutarci ad uscire da queste nebbie. Mentre l’altro presupposto fregeano, che è in questo caso completamente dimenticato, deve essere soprattutto ripreso: ed è il postulato (adeguato alla sussunzione logica del mondo) dell’annullamento dell’individuo. L’istituzione dello spazio logico è istituzione del collettivo. Nella logica contemporanea il problema humeano del Belief si presenta come problema degli aggregati di classe: da Russell a Moore fino alla logica rabbinica di Kripke, tutti debbono ripetere l’adagio fregeano: la classe è prima degli individui. Si potrebbe definire la stessa Krisis nel Tractatus come paralisi indotta dalla meraviglia di questa scoperta. Ed è questa la vera svolta impressa dalla filosofia linguistica: la definizione dell’orizzonte mondano come comunicazione collettiva. Questa scoperta non è poi così strana se si pensa che essa avviene all’interno dello sviluppo capitalistico, e nella maturità di questo. Se il Belief humeano gioca un ruolo fondamentale nella fondazione della market-society dell’individualismo, nella smithiana paternità del capitalismo - come agisce il Belief della comunicazione collettiva? Nell’ulteriore vicenda della logica contemporanea, dopo Wittgenstein, il problema della comunicazione diviene fondamentale. Il realismo ritorna ad opporsi con forza a quell’empirismo mistico che il Tractatus aveva generato, a quell’empirismo alla Carnap di cui sono state giustamente criticate la prodigalità nel dispendio del patrimonio logico e l’estrema avarizia nella produzione di espressioni descrittive. Scetticismo nei confronti delle tautologie, giusta impazienza dinnanzi all’incontinenza logicista, si riaprono così ai problemi del rapporto fra senso e significato, alle ricerche strutturali sulla forma (comunità e/o discontinuità, varianza e/o invarianza) del rapporto fra logica ed ontologia. Quali siano le molte figure di queste problematiche, fra Quine e Kuhn, fra Putnam e Kripke, quel che è certo è che la tensione realistica di Frege ha trionfato contro la rigidità cadaverica cui conclude la wittgenstiana descrizione del mondo. La nuova logica è oggi problema della comunicazione. Come dunque agisce il Belief della comunicazione collettiva? Sono personalmente convinto che su questo snodo i giochi siano tutti da farsi. Ma contemporaneamente sono certo che la filosofia del Logos, in quanto filosofia profondamente determinata da una concezione della razionalità


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individuale, non ha su questo terreno la minima possibilità di sviluppo, neppure nella sua estrema sofisticazione estetica - Andy Warhol come interprete di Wittgenstein - e che conseguentemente la teoria logica va riproposta sulla base dell’ermeneutica della comunicazione collettiva.

E’ interessante notare, a questo punto, come i concetti base di certa tradizione della logica, di cui sembra non si riesca a liberarsi, siano invece non solo in crisi ma, per così dire, cancellati dalle acquisizioni rivoluzionarie della logica postfregeana - ed in particolare dinanzi alle determinazioni produttive del giudizio analitico a posteriori (dove la presupposizione della classe dell’individuo non è semplicemente descrittiva) ed alla conseguente dissoluzione della tradizionale divisione fra enunciati descrittivi ed enunciati valutativi. Qui la logica postfregeana si coniuga con l’epistemologia postbachelardiana.

Poiché la comunicazione è un fenomeno etico-politico e presenta l’essere come un orizzonte di praticabilità, come un cantiere di formazioni linguistiche, solo un’antropologia del movimento collettivo può allora chiarirla. La scienza della produzione - o della distruzione - la potenza ed il potere si presentano su quest’orlo dell’essere, dentro la totalità dell’intelletto generale e le dimensioni della sussunzione, come esclusivi elementi critici. E’ ben vero che l’immagine - come vuole la De Monticelli - veste ora il cosiddetto pensiero nudo, ma lo riveste dentro quelle dimensioni pubbliche, collettive, produttive che il pensiero, fuori da qualsiasi robinsoniana nudità, ha assunto. E noi abbiamo bisogno di una logica a questo livello, che abbandoni ogni nostalgia del fondamento, che assuma interamente il commercio umano e la multitudo come dimensione propria. Probabilmente la determinazione etica del mondo è il solo orizzonte che la rivoluzione logica ci consegna come possibilità di scienza. Il problema del mondo e quello della vita ritornano ad essere uno solo.


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6. A proposito dell’aforisma << pessimismo della ragione, ottimismo della volontà >> e della ragionevole opportunità di rovesciarlo. Note di lettura su testi di Luhmann, Baudrillard, Lyotard, Habermas ecc.


1. Aforisma e cinismo.


L’aforisma rappresenta una delle forme nelle quali la << ragion cinica >> si organizza nella società nella quale viviamo. Sorge il problema di comprendere se quest’antinomia, in questa formulazione, non sia apparente e nasconda invece una più profonda scissione: fra soggettività etiche diversamente orientate.

Sono sempre stato stupito dalla frequenza con la quale negli ambienti politici ho sentito e sento ripetere l’aforisma << pessimismo della ragione, ottimismo della volontà >>. Dopo Gramsci (1). La ripetizione è di gramsciani e non, di progressisti e reazionari, di carcerati e carcerieri, di amici e nemici, di comunisti e liberali, di giovani e vecchi. Il tono argomentativo che accompagna l’esclamazione è più o meno questo: razionalmente non c’è nulla, o c’è poco, da fare - proviamo comunque. Se la ragione attesta un blocco, un limite - solo una sobria resistenza, una convinta insistenza potranno permetterci un orientamento positivo. Poco m’interessa l’ipocrisia spesso celata dall’aforisma: qui non dobbiamo fare né satira né moralismo. Assumo piuttosto l’aforisma come segno di una contraddizione, immediatamente rivelata, nell’etico e nel politico. E poiché il politico è, o dovrebbe essere, la scienza del possibile e quindi della volontà (ed è comunque interpretato in questo senso dai ripetitori dell’aforisma) - mentre l’etica è scienza del desiderabile e quindi della ragione, assumo l’aforisma come indicazione di un’eventuale contraddizione fra l’etico e il politico, fra la ragione e la volontà. Per cominciare.

Sembra accertato che, all’inizio dell’età moderna, nella rinascenza, la contraddizione fra l’etico e il politico sia storicamente generata dalla necessità di rendere autonomo il politico dalla morale. In effetti, l’assorbimento della morale nella teologia non lasciava altra via d’uscita a chi volesse emanciparsi [emanciparci?] da forme tradizionali di dominio. Il cosiddetto conflitto di morale e di politica


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è quindi, originariamente, rappresentazione di un atto di libertà. Esso perciò non riproduce un << eterno >> conflitto fra diverse categorie metafisiche (come il pensiero reazionario ha sempre ripetuto) quanto invece propone la fondazione di un nuovo orizzonte etico, meglio, di un nuovo orizzonte metafisico, - nel quale morale e politica potessero collocarsi in una diversa figura e la politica conquistare l’egemonia del rapporto. Su questo snodo la politica borghese, il << buon governo >>, l’amministrazione legittima, sembrano a lungo impersonare anche l’istanza morale. La scienza della politica, si presenti essa come esecuzione del governo giuridico o come pratica del governo economico, tende - in questa prospettiva - ad elidere ogni conflitto. Nel diritto, e soprattutto nel formalismo giuridico, sostanzializzato dalla gestione inflessibile dello Stato di diritto, si ricostruiva così un ambito unificato di morale e di politica, sulla base di nuovi valori (2).

Senonché un ostacolo, per così dire, ontologico presto si rivela. Ed è che, comunque motivata, la politica come scienza del possibile, rivela l’impossibile e la pratica del governo scontra nuovi limiti strutturali. E’ attorno alla consapevolezza del limite che l’ipotesi del conflitto fra morale e politica si ripropone. Nella vicenda dello Stato moderno, la concezione gerarchica del rapporto di morale e politica (o di politica e di morale) fa così luogo ad una concezione orizzontale, di reciproca autonomia ed esclusione, fra morale e politica. L’autonomia del politico, come pratica e come scienza, si distingue dall’autonomia della morale. Morale e politica istituiscono spazi separati. Il volto demoniaco del potere diviene consueto, quanto quello angelico della morale. Se la prima separazione (umanistica) del politico dalla morale è un atto di libertà e un momento di costituzione egemonica del politico (soprattutto nella sofisticata immagine dello Stato di diritto), - la seconda separazione, tipica della nostra epoca, è un atto di riflessione critica, di limitazione dell’energia costitutiva. Ed è qui che si riafferma l’aforisma << pessimismo della ragione, ottimismo della volontà >>: come registrazione dell’impossibilità di costruire la totalità e come esplicazione dell’urgenza di afferrarla comunque (3).

Su questa congiuntura precipitano motivazioni quanto mai diverse. Così, in primo luogo, qui convergono le concezioni del << determinismo scientifico >>. Quando la saldezza dell’orizzonte


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scientifico non riesce ad adeguarsi alla temporalità determinata dell’agire, allora lo jato che si apre è solo controllabile attraverso l’appello alla più alla moralità. << Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me >>. Il determinismo si accompagna al volontarismo etico, la certezza conoscitiva è (per contrasto) santificata dal libero << Sollen >> della volontà. La storia del dualismo kantiano, ma soprattutto quella del neokantismo ottocentesco, in tutte le sue versioni, è dimostrazione di questo sviluppo (4).

In secondo luogo, e rafforzandola, la concezione del limite razionale della politica è affermata da quel corpo di dottrine che chiamiamo del << relativismo etico >>. Avalutatività (razionale) e decisionismo (pratico) sono le forme nelle quali si presentano qui i concetti di validità e di valore, le figure centrali di scienza politica e di etica - e quindi di una dialettica di autolimitazione che, riconoscendosi come tale, esige comunque di essere efficace, di fondarsi quindi sulla necessità razionale di un << salto mortale >>. Tanto più avalutativo è il giudizio, tanto più decisionistica è la proposta (5).

In terzo luogo conduce ad una similare concezione del limite razionale della politica il << realismo sociologico >> - quando, agitandosi fra omogenee contingenze, fra equipollenti potenze, è indotto ad una serie di dilemmi che solo un certo ottimismo della volontà, una certa sovradeterminazione pratica possono risolvere. Il realismo sociologico non sa distinguere né cogliere le singolarità, - se non attraverso riferimenti esterni, trascendenti il suo orizzonte linguistico. La sovradeterminazione della volontà a fronte della relativa impotenza della ragione è, in ciascuno di questi casi, l’unica soluzione.

Si potrebbe continuare nella casistica. L’antinomia fra ragionevole e limitata scienza della politica e decisione etica è segno caratteristico del nostro tempo. Questa situazione critica si è, per così dire, normalizzata, fino a manifestarsi regolarmente nel linguaggio comune - talora in termini caricaturali. Che solo gli enunciati descrittivi creino certezza mentre gli enunciati valutativi sono fortuiti, che i giudizi etici sono quindi azzardati, ecc. - bene, questi sono ormai ritornelli di un sapere comune che mostra le difficoltà dell’agire come momenti antinomici, razionalmente insolubili. Su questa base, le stesse forme della politica, le più gelosamente custodite quali indici di valore comunque legittimanti


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(e nella democrazia questo è necessario), rivelano dimensioni antinomiche e sviluppano matrici non risolubili. si consideri ad esempio il meccanismo della rappresentanza democratica o gli scenari dell’amministrazione. Essi dovrebbero consistere in strutture descrittive, regni della trasparenza, - divengono invece, sulla base dell’antinomia assunta, matrici di valutazione fortuita, luoghi di mediazione azzardata, semplice decisione. Un elemento di innovazione inserisce alla struttura del politico - ma è elemento irrazionale (6). Ottimismo della volontà, appunto, sopra il pessimismo della ragione - di questa ragione che non potrà mai comprendere il reale.

Cinismo, allora? Valutazione solo irrazionale, violenta, immediata della realtà? Com’è altrimenti possibile rispondere alle esigenze della pratica? Il politico è un mondo limitato, non riesce a comprendere il resto, il differente - ma il resto, il differente debbono essere condotti al limite, essere compresi nel limite. Cinismo è questa riduzione della totalità al limitato, - è la frustrazione dell’etico assunta a fondamento del politico. Il conflitto fra il politico e l’etico non è considerato come un terreno sul quale si svolga una lotta di valori - bensì come scenario di soluzioni obbligate secondo le norme di un potere che, sentendosi parziale e limitato, pure deve raggiungere un risultato. La razionalità è regola di emergenza, di eccezionalità. Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà, di una ragione impotente e limitata e di una volontà potente e cinica (7).

Con ciò la confusione è completa. E’ indubbio infatti che questa concezione del politico è essa stessa un’etica, depotenziata ma non perciò meno efficace. Una sorta di divinità terrestre, rovesciata e maligna. Ma, se è così, il conflitto cui assistiamo non è fra etica e politica, bensì è antagonismo fra corpi diversi - un corpo etico-politico e, di contro, un altro corpo etico-politico, e così di seguito. Il conflitto è fra diverse divinità. Chi riordinerà queste potenti contingenze? Max Weber, uno dei più lucidi studiosi della politica del secolo XX, ha appunto chiarito come dal monoteismo si dovesse trascorrere al politeismo nella definizione dell’orizzonte di valore che costituisce la politica. Egli chiede a ciascuno di prendere posizione, di radicare eticamente la sua << Beruf >> politica, di entrare nella mischia. Sapere la relatività, egli sostiene, fosse pure l’unicità del punto di vista, non toglie la radicalità


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dell’approccio. Toglie solo la possibilità di un confronto razionalmente irresolubile. L’aforisma da noi considerato sembra allora ben registrare questa situazione - e non dunque attenere al generico conflitto fra etica e politica ma piuttosto all’antagonismo fra diverse etiche e politiche, fra differenti orizzonti valutativi, fra parti separate e soggetti diversi.


2. La riforma del modello.


Nel sistemismo tedesco (Luhmann) l‘ottimismo della volontà si fa tecnica di riduzione della complessità sociale. Quest’operazione consiste nell’astrarre le antinomie a base ontologica, nel collocarle in un progetto di simulazione, insomma, nel riqualificarle in uno scenario sostitutivo della realtà. Il processo di simulazione (nel postmoderno) come processo di sostituzione del reale.

Nella crisi del pensiero etico, giuridico e politico del nostro tempo si introduce dunque, in primo luogo e prepotentemente, la necessità, se non di risolvere questi problemi, almeno di dar conto di questi fenomeni. E’ stato notato che l’esistenza dell’ordine sociale è ormai inverosimile, - vale a dire che non è spiegabile la sua normalità. Man mano che la complessità sociale aumenta, la contingenza di tutti gli eventi tende a divenire assoluta. Il pessimismo della ragione aumenta così a dismisura, fino a produrre risultanze scettiche. Occorre però salvarsi dall’invadenza distruttiva della contingenza, dalla sua onnilaterale possibilità mai riducibile alla necessità razionale. Se, per dirlo nei termini della filosofia classica, l’essere è equivoco, dentro quest’equivocità occorre comunque orientarsi [orientarci ?] - tanto più poiché l’essere sociale è condizione di esistenza. Se queste contingenze, ad esempio, fossero armate - ed il raffinamento degli arsenali è continuo - chi si salverà? Qual’è il limite nella relazione fra contingenza e ragione di sopravvivenza? Qui, l’ottimismo della volontà assume allora una veste finalistica, strumentale e tecnica. Ci si chiede di accettare soluzioni tecniche che sono anche risposte alle questioni di una sorta di morale provvisoria, - un sistema di convenzioni atte a ridurre la complessità delle contingenze, a permetterne la


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selezione, l’ordinamento, in vista della sopravvivenza.

Quella cui qui voglio riferirmi con qualche accenno è la costruzione dell’immagine del mondo sociale propostaci dal sistemismo tedesco, ed in particolare da Niklas Luhmann. Quest’autore è probabilmente il miglior riformulatore di un’ipotesi di ottimismo della volontà nel nostro mondo (8).

Ora, l’immagine del mondo sociale qui presentata è, a prima vista, del tutto paradossale. Essa si vuole infatti completamente oggettiva - ed infatti lo è, in quanto la comprensione dell’essere sociale è affatto strumentale, tecnica - ma nel contempo è un immagine pan-etica. Il sistema è infatti autoreferenziale: quindi la sua oggettività implica la soggettività dell’autoreferenza. Ogni segno dell’esistenza viene compreso e ridotto dentro la complessità sociale e l’operazione di riduzione proposta è interna ai segni dell’esperienza, e della totalità dell’orizzonte sociale interpretato dal soggetto. Di conseguenza, la questione che si pone e che va risolta, è la seguente: quali sono i parametri che rendono verosimile la selezione della complessità? Che cosa può rendere meno equivoco - se non univoco - l’essere sociale? E come può la volontà dibattersi nel caos delle contingenze e dare qualche verisimiglianza alla generosità della sua pretesa, all’esigenza di efficacia della ragione strumentale? Il problema è decisivo perché, essendo il referente sociale considerato in termini omogenei, esclusivi, il fine perseguito non è semplicemente tecnico. Ma che cos’è una tecnica della morale, una tecnica costretta ad investire l’intero mondo etico, - una tecnica quindi, non solo del comando bensì del consenso, una morale, dunque, si provvisoria, ma coestensiva all’intera politicità?

L’ottimismo della volontà dà a questa serie di problemi una risposta quanto mai ingegnosa - l’operazione di riduzione della complessità sociale è tradotta in operazione di sostituzione della realtà. Ma, oltre ad essere ingegnosa, questa risposta è coerente - non potrebbe essere diversa. La morale provvisoria si presenta infatti nella forma del sistema. Il sistema viene costituendosi attraverso un processo di riduzione della complessità. Questo processo di riduzione e produzione di un’immagine oggettiva, dotata di sistematicità interna, autoreferenziale, che seleziona continuamente gli elementi che sono coerenti – l’ambiente e la storia possono solo essere recuperati dentro un meccanismo


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di riduzione-selezione che l’ottimismo della volontà guida a sostituire la realtà.

L’inversione del rapporto fra ontologia e logica, e la primalità di quest’ultima - sicché è il senso degli enunciati e delle funzioni a produrre il significato - è cosa consueta nella filosofia contemporanea, a partire da quella che è stata chiamata la svolta linguistica (9). Ma non è pacifica - tanto più quando quest’inversione avviene nel campo dell’etica e investe le burrascose condizioni di esistenza del sociale. Ma di ciò più avanti. Qui interessa ancora scrivere come l’ottimismo della volontà possa presumere di organizzarsi in logica costitutiva del sociale. Questo può avvenire ad alcune condizioni, tutte proposte da un processo teorico di depotenziamento del reale, di svuotamento ontologico del mondo. Mentre nelle forme più ingenue dell’ottimismo della volontà il mondo non è negato ma semplicemente assunto come condizione tragica ed irresolubile, in queste più sofisticate versioni la volontà si fa rappresentazione. Il mondo è orizzonte di comunicazione, come tale si organizza in sistema autoreferenziale - ma questa produzione di significati è inevitabilmente tautologica - e solo la creatio continua, la continua parousia della volontà permette la determinazione di elementi selettivi, la riduzione della sfera del caso, la posizione di proposte innovative. Datosi come sostituzione del reale, il sistema del mondo trova solo l’ottimismo della volontà come attività che ne allarga la presa nell’orizzonte della vita. E quest’ottimismo della volontà è, per così dire, reso metafisico - perché è metafisica la progressione del reale come autoastrazione, come dinamica di strutture e di sistemi dentro i quali ogni attività soggettiva si oggettivizza e appunto con ciò definisce nuove possibilità di riduzione-produzione (10).

Che Schopenhauer sia fra le letture di Wittgenstein, è noto -che ne sia anche il prodotto, quando la filosofia ritorna sul sociale, è interessante. Se in Wittgenstein il rapporto verisimiglianza-normalità, per quanto pittoricamente depotenziato, è comunque dato, - nello schopenhauerismo degli epigoni tale rapporto è radicalizzato: la normalità è e resta inverosimile. La volontà interviene a far si che il contenuto della comunicazione intersistemica sia eguale a zero. Ché infatti solo in tal modo le condizioni di tenuta del sistema - è del suo equilibrio - sono soddisfatte. Non


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quelle della verisimiglianza ma la riproduzione della normalità inverosimile. A tal fine e in tale quadro, la dinamica del sistema non può essere letta che come creazione continua di emergenze determinate, compensative degli squilibri, - atto di volontà. L’ottimismo della volontà è eroicamente irrazionale. Il sociale è astratto sul ritmo creazionistico della volontà: produce sostituzione astratta di/per una realtà ridotta. Un romanticismo forte costituisce pallide formazioni logistiche. Il misticismo è totale. Mentre il pessimistico realismo dei primi ripetitori dell’aforisma considerato poteva dirsi cinico - ed il cinismo può anche essere forte nel comportamento beffardo e sprezzante della realtà che talora mostra - qui il sistema è illusionistico, eine Schwärmerei.

(E se invece, di contro, il processo di astrazione della realtà fosse un processo reale e razionale? Ma di questo più tardi).

Qui affermare è togliere. L’ottimismo della volontà diviene qui una formalistica autoproduzione, un’equivoca hegeliana Aufhebung - esasperazione irrazionalistica e volgare del salto in avanti come salto mortale. La diafana figura del sistemismo non ha più neppure la curiosa concretezza del gioco e del divertimento, dell’astuzia e del compiacimento estetico. L’astrazione è simulazione, è sostituzione della realtà. L’autoastrazione è autocostituzione, ma illogica, vuota. Asylum ignorantiae. Mai la volontà ha tanto disperatamente opposto la propria pretesa di rappresentazione, il proprio frenetico bisogno di spostamento, di annullamento e/o di sostituzione del reale - alla prassi concreta, collettiva e costitutiva, razionale. In questa riforma del modello aforistico del pessimismo della ragione e dell’ottimismo della volontà precipitano tutti i motivi irrazionalistici della crisi contemporanea. La linea Schopenhauer-Wittgenstein si conclude nel sistemismo. E questo precipitato raccoglie tutte le espressioni teoriche dell’ottimismo della volontà cieca (11). Come un impluvio dai mille canali. Si sa tuttavia quanto gli equilibri ecologici siano corrotti. Vuol forse dire questo che nell’impluvio sistemico, talora divenuto latrina di periferia, specchi il suo faccione anche la continua tentazione fascista e autoritaria? E’ comunque certo che nell’attuale crisi della democrazia l’ottimismo della volontà nutre un’autonomia del politico che è tensione di progetto totalitario. Il


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Politico ha come obiettivo la riproduzione di se stesso in fondo completamente indipendente - esso assorbe tutta la realtà, per sostituirla a sua immagine e somiglianza. Per tenerla nell’inverosimiglianza e nell’assurdità della sua normalità.


3. Astrazione, tautologia, costituzione.


La realtà esiste. E’ anzi possibile considerare il processo di astrazione del reale come un processo (reale) di nuova costituzione del mondo. Contro le teorie sistemiche, le teorie linguistiche rappresentano un tramite per afferrare la sostanza ontologica del mondo astratto nel quale siamo costituiti.

L’autoastrazione del reale è un processo reale. Proprio perché esso è reale non conclude alla tautologia - in nessun caso. Noi possiamo trasformare in tensione reale la tensione teorica propria dell’analisi sistemica a confronto con l’ambiente e con la storia. Quella tensione che nel sistemismo è continuamente frustrata nel fittizio dualismo di teoria e realtà, di sistema autoreferenziale e pratica di sostituzione - noi possiamo coglierla in termini reali. Di qui l’effettivo progresso conoscitivo che una mistificazione epistemologica (quale la sistemica) può comportare. Ora, possiamo dunque registrare alcune novità conoscitive che non l’ottimismo della volontà ma la forza della ragione dovranno verificare.

Il primo punto consiste nella definizione dello stesso processo di autoastrazione del reale, e cioè della realtà sociale. Poco ci interessa qui strappare la maschera idealistica imposta al processo: è utile e sufficiente sottolineare alcuni caratteri formali del processo stesso (per intenderci che ritroviamo fondati nell’analisi del processo di sussunzione capitalistica della società produttiva e nella trasformazione della qualità del lavoro produttivo) (12). Ora, nel processo di autoastrazione del reale la distinzione fra soggetto ed oggetto viene meno. Conseguentemente, il rapporto fra logica ed ontologia si appiattisce, si ristruttura su un orizzonte di reciproche funzioni. L’articolazione interna della realtà astratta è posta nella circolazione di ipotesi logiche


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e di costituzioni ontologiche - formalmente funzionali. In secondo luogo, date queste fondamentali qualificazioni dell’astrazione sociale, ne viene che ogni problema epistemologico riguardante lo statuto di corrispondenza fra il pensiero ed il reale, fra il dover essere e l’essere, è tolto. La distinzione fra giudizi descrittivi e giudizi valutativi, capo delle tempeste di ogni epistemologia etica e di ogni deontologia politica, è anch’essa tolta. Il problema epistemologico è sostituito dall’analisi formale della circolazione sistemica. I soggetti si presentano fuori da ogni possibilità di collocazione sistemica che non sia puramente connotativa - onde, per esemplificare, l’approccio sistemico non si ritiene contraddittorio con quello dialogico-mutualistico. In terzo luogo, quindi, le esigenze delle teorie della comunicazione e delle teorie dell’interazione comunicativa sono accolte e rese rigorose dall’appiattimento ontologico di ogni pretesa trascendentale sul terreno logico e funzionale (13).

Ora, se nel paragrafo precedente ho sottolineato come l’orizzontalità e l’equipollenza di ogni dimensione del quadro sistematico non possano essere vivificate se non da un rozzo procedimento volontaristico, da un decisionismo solo sofisticato da una lettura creazionista, continuata, - e quindi come la mistificazione consista nella volontà di nascondere le contraddizioni reali, gli antagonismi della prassi, addirittura nella volontà di distruggere la prassi per esaltare la pura determinazione irrazionale del dominio - qui va detta la ragione per la quale questa sortita reazionaria nella teoria politica è comunque interessante e portatrice di novità conoscitive. Va detto perché essa ponga un problema del tutto reale.

Il fatto innovativo, e problematico, consiste in ciò che l’autoastrazione della realtà sociale non è una tendenza ideale ma un processo reale - un atto costitutivo dell’ontologia sociale. Da questo punto di vista è forse interessante notare che alcune conquiste fatte, in forma estremamente più matura, estremamente più forte, dalla logica contemporanea nel suo sviluppo, possono valere come referente analogico nel chiarimento del problema registrato dal sistemismo. Alludo al fatto che, nella vicenda della logica contemporanea ed all’interno della sua svolta linguistica, abbiamo sia l’integrale riduzione del mondo ad un orizzonte comunicativo, sia la perfetta identificazione dell’ordine


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delle relazioni semantiche (indicatrici di realtà) e dell’ordine delle relazioni costitutive (costruttive di senso). Questa è una trascrizione ottimale del processo di autoastrazione della realtà sociale - nella misura stessa in cui questo processo si offre all’intera estensività e all’interna elasticità del rapporto fra senso e significato, trasferendolo sull’orizzonte della comunicazione collettiva, di soggetti collettivi, di classi d’individui. E quella linguistica è anche un’ottimale definizione dei nuovi orizzonti della pratica, dove non gerarchie ma solo antagonismi lineari possono presentarsi. Sicché l’autoastrazione del reale non eguaglia il mondo se non come orizzonte, nel mentre, su questo stesso orizzonte, apre la possibilità della paritaria espressione delle potenze reali. Gli universali si presentano fra 1 mondo e la vita a dimostrare la possibilità di una loro realizzazione.

Ma perché questo avvenga è necessario che il rapporto fra astrazione e tautologia sia sciolto. E lo è soltanto nella misura nella quale l’astrazione della realtà sociale non subisce la violenza di una formalizzazione depotenziata e depotenziante, del misticismo della forma - prodromo del volontarismo, dell’ottimismo della volontà, della stoltezza del decisionismo. La logica linguistica prefigura le avventure del formalismo e del funzionalismo sistemici - mostrando essa stessa, come quest’ultimo fa, la potenza dell’astrazione sociale - ma nello stesso tempo indica la diversione pratico-ideologica e la distorsione dell’astrazione quand’essa acceda alla prospettiva formalistica. La logica linguistica riesce a dimostrare queste distorsioni non certo perché sia immune alle urgenze della pratica, quanto perché essa, nella sua storia, ha subito le tentazioni del misticismo della forma, e se ne è liberata, sentendone l’intera impotenza - ed avvertendo che l’ottimismo della volontà sta alla radice di quest’impotenza ed è estraneo e nemico al pensiero. Negli sviluppi postwittgensteiani della filosofia linguistica non assistiamo dunque ad una rifondazione del Logos, sulla cui crisi si instaurano egualmente il misticismo teoretico (pessimismo della ragione) e il volontarismo ascetico (ottimismo della volontà) - assistiamo bensì ad una dislocazione universale del pensiero e del sapere, del soggetto e della comunicazione, della ragione e della volontà. Nell’intrecciarsi con il significato il senso si fa potenza - e il mondo si avvia a riconquistare la vita (14).


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Nella sistemica etico-politica l’astrazione del mondo si fa invece tautologia della vita - scienza del potere e negazione pratica della vita. Che, astraendosi, la vita divenga più potente del mondo, l’ottimismo della volontà non lo vuole. Che il sapere sia costitutivo, che la sua potenza sia autodeterminazione esclusiva del potere, l’ottimismo della volontà non può accettare - sarebbe una contradictio in adjecto poiché l’ottimismo della volontà è in sé sovradeterminazione. Che il concetto di volontà debba essere inteso come variante della ragione collettiva, produttiva, costitutiva - l’ottimismo della volontà non può soffrirne perché le dimensioni scettiche della sua fondazione si son fatte pratica di cinismo, lotta contro la vita, condizione di separazione.

Nel processo di autoastrazione della società il mondo si è fatto invece mondo etico, l’essere si è rivelato come essere etico - e comunicazione ed antagonismo si rivelano a loro volta come potenze orientate al fine di identificare, qualificare, svolgere le dimensioni collettive della riproduzione dell’essere. La logica contemporanea ci ha condotto su quello stesso bordo della determinazione etica che l’autoastrazione del sociale ha costituito. L’ottimismo della volontà tenta di combattere questo salto dell’essere, di negarlo non nella sua effettualità ma nel suo significato - di imbalsamarlo come tautologia, astrazione vuota, impotenza (15).


4. Sul bordo trascendentale delle strategie etiche.


La teoria critica, che rinasce a fronte della crisi delle teorie sistemiche, cerca di costituirsi in orizzonte trascendentale. Ma l’orizzonte trascendentale, così come ogni altro orizzonte di mediazione, rivela un deficit critico: esso non riesce a cogliere quel reale che si è costituito in potenza etica, poiché alla potenza oppone la mediazione e all’etica il formalismo. Il criticismo non va al di là del postmoderno.

Tutte le condizioni a che l’orizzonte << avalutatività-decisionismo >>, << pessimismo della ragione-ottimismo della volontà >> sia distrutto e rovesciato, sembrano a questo punto date.


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Ma distruzione e rovesciamento non si danno. La filosofia contemporanea è come ipnotizzata dal vuoto della << sussunzione reale >>. Sia sufficiente, in proposito, guardare ad uno dei tentativi più interessanti che - presupponendo l’eclissi della ragione su questo livello di astrazione del reale - è stato proposto: il tentativo neocritico di Habermas (16). Ora, la ricostruzione di un orizzonte unitario, qualificato in termini linguistici e comunicativi, non va oltre (nella maggioranza dei casi) la proposta di una dinamica trascendentale che si ponga fra referenza, universale ma vuota, del quadro globale ed iniziativa, razionale ed etica, dei soggetti. Questa dinamica è centrale nelle configurazioni teoriche à la Habermas (17): è un intreccio di strategie soggettive che, nella loro complessità intercomunicativa ed istituzionale, insieme alludono e formano un quadro trascendentale. Il trascendentalismo è qui connotazione delle condizioni attraverso le quali le strategie comunicano, formano cioè quel tessuto di consenso, di universalità che è - appunto - lo sfondo necessario della comprensione interumana ed intrasistematica. V’è di più: il trascendentalismo cerca fondamento ontologico, o almeno uno spessore ontologico. E’ dentro questa tensione verso i livelli ontologici, verso i soggetti agenti, che le condizioni trascendentali del sapere e della volontà si attualizzano e che i valori si pongono - come sintesi di comunicazione e come prammatica funzionale. Al funzionalismo obiettivo delle teorie sistemiche viene così opposta la forzatura critica di un funzionalismo soggettivo che intende dare all’orizzonte sistemico consistenza trascendentale e ricondurre la validità al valore. Il bordo trascendentale del sistemismo è portato su un limite cui tende la molteplicità delle azioni individuali, su un centro cui si imputa il significato delle azioni dei soggetti. L’ottimismo della volontà sembra quindi voler uscire dalla frustrazione di una mancanza di referente trascendentale e liberarsi dal cinismo cui tale mancanza lo condanna.

Ma questo volere è ontologicamente debole e in definitiva impotente. Può il criticismo rappresentare i processi di autoastrazione della realtà sociale? Se la variante sistemica del formalismo si chiude in una dichiarazione di impotenza e nell’incapacità di produrre innovazione, la variante criticistica è non meno bloccata: il limite fra prammatica soggettiva e orizzonte trascendentale ha le stimmate di tutti i cattivi infiniti del pensiero


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filosofico. Sicché il criticismo del nostro tempo vaga continuamente fra la presupposizione fenomenologica e preriflessiva della legittimazione del valore (e solo in tal modo la comunicazione diviene possibile) e la determinazione quasi dialettica dell’implicazione istituzionale di evidenza e di validità, di coscienza e di intersoggettività (e solo in tal modo senso e consenso si presentano come verità). Ma queste relazioni non sono mai chiuse. La << cosa in sé >>, oggi presentata come << altro >> mondo << in sé >>, resta irraggiungibile. Ogni tensione verso il livello ontologico resta << tensione >>, << intenzione >>, << tendenza >>. Il criticismo non può cogliere il reale - dal reale astratto che è venuto costituendosi davanti a noi esso resta solo confuso.

Quando si trascorre dal terreno della riflessione epistemologica a quello della riflessione etico-politica, il dilemma è altrettanto insolubile, ed il pensiero risulta inabile a districarsi dal cattivo infinito, e lo spazio fra potere e comunità, fra legittimità e legittimazione è tanto confuso quanto indistinto. Il deficit del criticismo consiste nella fatica di fissare un rapporto sempre aperto alla ridefinizione dei referenti, delle polarità: un orizzonte trascendentale che tuttavia, quando assume consistenza, riduce i soggetti a pure utenze, - un orizzonte dei soggetti che quando si sostanzia in strategie adeguate, perde ogni punto di orientamento. Qui, allora, l’ottimismo della volontà (che non è voluto) è subito, è una costrizione cui il fallimento della mediazione induce.

Ma non è questo il destino di ogni filosofia della mediazione? E che senso ha più porre il problema della mediazione a fronte dei dislocamenti che la realtà sociale ha determinato nel suo processo di autoastrazione? L’autoastrazione sociale comprende la mediazione, la subordina, la sostanzializza come caratteristica della crisi del valore umano di ogni sintesi sociale, come risultato dello sviluppo della ragione strumentale (18). A che pro reintrodurre la mediazione quando è dalla conclusione tragica dei suoi processi che l’ottimismo della volontà è stato costretto a dare irragionevole prova di sé? A che scopo accedere a questo depotenziamento ontologico, che il criticismo e il trascendentalismo dimostrano, quando la mediazione (nella finezza kantiana, nella forzatura hegeliana) ha mostrato l’incapacità di afferrare l’essere - e con ciò ha indotto irrazionalismo e crisi? (19).

Il criticismo contemporaneo, ridotto sul limite del significato


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umano dell’agire, sul fronte del quale la legittimazione non può più essere data attraverso la tecnica, tenta di riconquistare un orizzonte di mediazione trascendentale attraverso la comunicazione. Ma la comunicazione non può essere metacritica, non può essere fondativa. Essa è il terreno su cui esercitare la critica. E’ il risultato dell’autoastrazione del reale, è tessuto ontologico. Le parole sono enti. Il mondo è l’essere parlato e riprodotto nella comunicazione. La vita è la lotta che si sviluppa in questo ambito, ed è crisi e trasformazione. Sul terreno della comunicazione si mostrano le potenze dell’essere, in tutta la freschezza e la violenza che le caratterizza - strategie, traiettorie, direzioni. Il rapporto critico << avalutatività-decisionismo >> non può perciò essere aggredito sul piano di una nuova teoria della mediazione, che inevitabilmente introduce una metacritica. Una teoria del fondamento - sotto il profilo della volontà e del suo ottimismo, della sostituzione della ragione con qualche depotenziato simulacro. Simulazione di fondamento. Ma a che scopo cercare fondamento? Fondamento di che cosa? Il << trilemma di Münchausen >> è effettivamente insoubile: ogni filosofia della fondazione ultima cade o nella regressione infinita o nel circolo logico o nell’arresto del processo di fondazione (20). Ma se il dilemma altro non fosse che la descrizione della nostra realtà? Perché è scetticismo accettare che questa realtà linguistica e comunicativa fissi la sua verità non nel fondamento ma nella sua mancanza? Sulla apertura delle infinite strategie che sul bordo dell’essere s’affacciano nel tentativo di costruire la vita? Lo scetticismo è un dato certo - è l’universo mondano che viviamo. Di qui comincia la filosofia - il pensiero comprende le proprie condizioni come struttura dalle infinite aperture e queste condizioni sono ontologicamente varie ed instabili - descrivibili in termini tradizionali riferibili allo scetticismo. Ma perché mai questa condizione dovrebbe fissare il pensiero dell’impotenza? Perché mai contingenza dovrebbe essere negazione della ragione? (21) Di contro, sul suo bordo trascendentale, la strategia etica, come interazione comunicativa, trova ed accetta e lavora sulla crisi di ogni orizzonte trascendentale. La trascendentalità, l’universalità è compresa in una istituzionalità che è precostituita - condizione pregressa di costituzione. In un’istituzionalità che non è altro che immersione nel mondo della vita da parte dei soggetti, corrispondenza del mondo del pensiero


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con il mondo della vita e tensione verso la costituzione di altri spazi di vita e di pensiero (22).

Il funzionalismo soggettivo, le filosofie dell’interazione comunicativa non sono dunque altro che soluzioni oblique e contraddittorie rispetto ai problemi ed alla descrizione del mondo che il funzionalismo oggettivo, il sistemismo (nella grande svolta linguistica della filosofia contemporanea) ci consegnano, mistificandoli. Anche le filosofie dell’interazione comunicativa colgono brani di questa problematica - rivendicando il ruolo della soggettività. Ma che soggetto è questo che ci consegnano? Un soggetto che va ancora a cercare mediazioni critiche, trascendentali, indeterminate, indefinite... No! Di contro, il soggetto nasce già dentro un nuovo assoluto livello di autoastrazione della realtà. Non abbiamo bisogno dell’ottimismo della volontà - perché siamo finalmente a contatto di un nuovo orizzonte ontologico.

Continues...

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